sabato 23 agosto 2014

1935

LA STAMPA - Martedì 4 Giugno 1935 - Anno XIII
JUVENTUS La squadra di tutti i trionfi e di tutte le vittorie 

Non è più un fatto nuovo che la Juventus vinca un Campionato. Fu un fatto nuovo di zecca nel 1905, quando interruppe la serie di vittorie del Genoa e del Milan, puntò fuori il capo in atteggiamento timido e dimesso, ed ottenuta l'affermazione si affrettò a rintanarsi. Lo fu ancora ventuno anni dopo, nel 1926, quando mise d'accordo i due fieri antagonisti del momento, Genoa e Bologna, sfondò la cintura monopolistica che essi tenevano in fatto di onori, e si impose. Dal 1931 non lo è più. Che da allora, la nostra grande manifestazione calcistica più non conosce se non un vincitore. Un record : Cinque vittorie consecutive. Non le ha mai ottenute nessuno. Il limite massimo raggiunto dalle società rivali tocca il numero tre. Genoa : anni 1898, 1899, 1900. Genoa ancora, anni 1902,1903,1904. Pro Vercelli, anni 1911, 1912, 1913. E come totale assoluto, una squadra sola supera la Juventus: il Genoa con le sue nove vittorie. La Juventus viene quest’ anno ad affiancarsi alla Pro Vercelli con sette successi. Se si dovesse fare una classifica dei campioni, dalla prima edizione del campionato ad oggi si avrebbe quindi questa graduatoria: Genoa 9, Pro Vercelli e Juventus 7, Milan e Internazionale - Amsbrosiana 3, Bologna 2, Casale e Torino 1. Il fatto nuovo sta nel modo in cui venne ottenuta la vittoria quest'anno. Vittoria che ha del miracoloso, dell'incredibile per coloro che conoscono le vere e reali condizioni in cui si è venuta a trovare la squadra bianconera. Condizioni disagevoli all'inizio, che non han fatto altro che aggravarsi e complicarsi di mano in mano che si andava avanti. Fin dal primo passo si trattò di dare un successore ad uno dei più saldi pilastri tecnici e morali della squadra: il portiere, quarantasette volte « nazionale » Combi. Il sostituto fu attinto dalle riserve. Contemporaneamente si trattò di rimpiazzare Sernagiotto: effettivamente la sostituzione non avvenne, per l'occupazione del posto si provvide con mezzi di fortuna per quasi tutta la stagione. E per ultimo, sempre come questione iniziale, si dovette affrontare quella dei « limiti » d'età che due terzini del calibro di Rosetta e di Caligaris pareva avessero decisamente raggiunto. Uno dei due rimpiazzanti, Santagostino, proveniente dalle riserve, fu messo subito fuori combattimento per grave ferita al ginocchio. A dar sangue nuovo alla linea dei terzini rimase il solo Foni, e questi si portò egregiamente. Caligaris si ferì a sua volta sul più buono, e si dovette richiamare allora Rosetta, che già veniva da molti considerato come uomo finito.

Una stagione di guai
Poi vennero i guai inattesi, quelli di campionato e di squadra nazionale. La stagione è appena aperta, che Monti riporta a Londra in maglia azzurra la frattura di un piede. Si cura, riprende, e si rompe nuovamente l'arto. Totale: quasi quattro mesi di assenza dai campi dì giuoco. Altro incontro internazionale, contro l'Ungheria a Milano: Bertolini ne esce con una costola rotta ed un mese e mezzo di inabilità al servizio. Nuova prova della Nazionale, contro la Francia a Roma, e l'unico mediano bianconero ancora valido si becca una contusione che lo ferma per un mesetto. All'attacco, Cesarini, tartassato da ferite ed infortuni di ogni tipo non riprende che tardi a giuocare, e la sua presenza in squadra non diventa regolare che verso la fine della stagione. Ferrari torna da Palermo ferito ad una gamba. Impiega due mesi a rimettersi a posto. Poi Borel va soldato ed il cambiamento di vita lo scombussola completamente: va a rotoli come grado di forma. Ed infine, proprio al momento critico del campionato, ecco Orsi che parte per l'Argentina: Orsi, il trascinatore e l'animatore dell'avanguardia. Non lo si sostituisce. Non si può. Ciò, senza parlare degli infortuni minori, tipo strappo muscolare a Varglien II, per esempio, che dalla gara di Milano ancora non ha potuto riprendere a giuocare. Acciacchi, amarezze, contrattempi di ogni tipo. A chi la osserva da vicino, la squadra bianconera fa l'effetto di un invalido che si trascini più che di un atleta che lotti. (Inoltre fu allontanato il leggendario Carcano probabilmente per aver fatto delle allusioni sulla probabile omosessualità di Monti o perchè lui stesso lo era in un'epoca di "macismo" propagandistico e alla fine ci fu persino la tragedia di Edoardo Agnelli, il lungimirante presidente decapitato dall'elica di un idrovolante nel porto di Genova, il nome più tragico fra quelli della Famiglia - NDA). Sul finir della stagione giuoca male. Il giuoco costruttivo è in essa quasi scomparso: l'attacco arranca e fa quel che può, non si impone più. Eppur, nel bel mezzo del grigiore salta fuori di tanto in tanto una giornata che lascia di stucco per la sua limpidezza, per il linguaggio che la squadra torna a parlare. Come memore del passato, essa sfodera risorse che portano il giuoco ad un livello di praticità a cui l'avversario non può giungere. Ne resta come soggiogato, l'avversario. Sono le giornate che salvano la situazione e portano avanti la squadra in classifica.

La giornata decisiva
Una di queste giornate, fu proprio quella decisiva, l'ultima del programma. Essa resterà memoranda nella storia dei bianconeri e del calcio italiano in genere. La Juventus aveva a che fare con un avversario più fresco, più giovane, più veloce, più brioso. Tentò l'avventura dell'attacco per una ventina di minuti, e poi capì che giuocar da pari a pari non poteva, nelle condizioni in cui si trovava. Si chiuse allora in sè, e lasciò che l'avversario si sbizzarisse. Smobilitò la già evanescente prima linea, ed attese che si chiarisse l'orizzonte, attese gli eventi. Sa attendere la squadra anziana ed esperta, senza nessuna di quelle impazienze e di quei nervosismi che scoprono il fianco all'oppositore. La difesa juventina non si scoprì mai. Constava dei quattro quinti della compagine, questa difesa. A turno vi lavoravano per cinque minuti Borel, Ferrari, Cesarini, un po' tutti. Non si scoprì mai, nemmeno in quella prima, mezz'ora della ripresa, in cui l'offensiva della Fiorentina infuriò come una tempesta. A scoprirsi, a disunirsi fu invece proprio la Fiorentina, quando comprese che tutta la sua aggressività non approdava a nulla. I viola, come in un gesto di dispetto, mollarono allora per brevi istanti la preda. Fu allora che si vide ergersi la figura della Juventus. La si vide moralmente dall'atteggiamento materiale degli uomini. Non diede tempo al tempo, non tergiversò. Come se quel momento di rilassamento, come se quella crisi di nervi dell'avversario la avesse attesa da lungo tempo, ne approfittò. Diede respiro al suo giuoco e tentò la stoccata. Prima la prova generale Diena - Gabetto con improvvisa comparsa di Ferrari tra gli avanti, (palo clamoroso - NDA) poi la botta decisiva eseguita sulla falsariga della prova. Ferrari aveva capito che piombando in area di rigore in quel dato modo ed in quella data posizione, coglieva di sorpresa la difesa toscana. E fece quello che doveva fare. Segnò il punto che diede alla squadra il diritto di conservare lo scudetto di campione. Può essere che della vecchia squadra juventina questo sia uno degli ultimi guizzi di energia — che la squadra è vecchia e non può continuare a funzionare in eterno —, ma come guizzo, valse un campionato e mostrò cosa sia la classe. Non la si definisce la classe, la si vede. La si vede, tra altro, dal modo in cui fa fare con facilità ad un uomo quello che un altro con ogni sforzo non può fare. Quando si seppe, a Firenze, che l'Ambrosiana aveva perso per quattro a due contro la Lazio, il primo movimento fu di incredulità. Quattro palloni in rete, l'Ambrosiana non li aveva mai presi in campionato. Quattro palloni sono molti per una difesa come quella. La condotta di squadra, la condotta di gara non dovrebbero permettere un simile crollo in un incontro decisivo.

La vittoria più bella
L'Ambrosiana dev'essere stata tradita da quello stesso nervosismo, da quello stesso momento di incertezza di cui rimase vittima la stagione scorsa, quando ebbe il titolo di campione a portata di mano. Allora nel contegno generale delle ultime gare, ora nella condotta dell'ultima gara. Invece di serbarsi calma, di dominarsi, di chiudersi in sè quando sente odor di vittoria, la squadra si sconnette, si innervosisce, si spappola. Non forma più un tutto compatto, unito, consistente, calmo, come è necessario, come è indispensabile proprio nel momenti decisivi. E l'Ambrosiana era quest'anno la unità meglio attrezzata di tutte in fatto di tecnica. Al cospetto della Juventus ammaccata ed acciaccata, era un gladiatore in piena possanza. E' tale il contrasto che è spiegabilissimo come il risultato finale assuma per i neroazzurri il sapore di uno smacco, di una beffa quasi. La Juventus, società dai dirigenti sagaci, dall'ambiente organizzato, dai giuocatori di classe, ha vinto con una squadra che è al suo tramonto, forse il suo più bel campionato. Bello perchè è l'intelligenza che lo illumina. La calma, l'accortezza, il freddo calcolo, la precisione sfoderate dal più che trentatreenne Rosetta a Firenze, sono l'indice della forza della squadra, la base prima dei suoi successi. E' difficile, terribilmente difficile vincere un campionato in Italia. Di questa competizione noi siamo riusciti a fare una fornace ardente. Una fornace che è una meravigliosa fucina di energie fisiche e morali, ma in cui il cammino da battere non si riesce a discernerlo se non si posseggono qualità di eccezione. Una compagine mediocre, il campionato italiano non lo vincerà mai. Queste doti di eccezione, gli uomini che compongono la vecchia squadra della Juventus le possedevano, le han possedute finora nella misura necessaria. Passeranno degli anni prima che questi uomini, che tante soddisfazioni han contribuito a dare all'Italia calcistica, vengano dimenticati.

Di Vittorio Pozzo (mi sono permesso di apportare qualche modifica “grammaticale” , pochissime in verità, il testo è quello originale al 99,99 %)

Giovedì a Casa Littoria Torino sportiva ha accolto trionfalmente la squadra per la quinta volta consecutiva Campione d'Italia. Migliaia e migliaia di persone hanno atteso i « campioni » di ritorno da Firenze ove hanno saputo conquistare l'ultima, decisiva vittoria del torneo. Le autorità ed i componenti la grande famiglia bianco-nera hanno, nell'Interno della stazione di Porta Nuova, porto il primo saluto ai calciatori quando il treno s'è arrestato in perfetto orario, alle 18,35 sotto la grande tettoia. I giuocatori, incontro ai quali sono mossi amici ed ammiratori recanti grandi stendardi bianco-neri e giganteschi scudetti, apparivano raggianti. Il Federale ed il Podestà si sono compiaciuti con loro per il meritato trionfo e quindi ha risposto l'avv. Craveri, vice-presidente del sodalizio, il quale ha ringraziato le autorità per l'incitamento dato durante tutta la stagione alla Juventus ed ai suoi campioni. E' stata simpaticamente notata la presenza di tutti i giocatori della prima squadra granata e dei loro dirigenti. Essi si sono vivamente rallegrati con i loro... rivali, dei quali sono sinceri ammiratori. Poi, mentre la musica dei Giovani Fascisti suonava « Giovinezza », la folla ha issato in trionfo Rosetta, Varglien I e Cesarini, sbucando con essi in via Sacchi, ove era ammassata una moltitudine di sportivi. Si è allora creato un corteo che attraverso le principali vie cittadine ha accompagnato i calciatori alla sede del Circolo in via Bogino. Qui giunti i « campioni », saliti nelle sale del circolo Juventus, si sono ripetutamente presentati al balcone, fatti segno a rinnovate dimostrazioni di entusiasmo. Il salone della Direzione s'era intanto adornato di bandiere e gagliardetti bianco-neri. Inoltre a due intere pareti erano affissi centinaia di telegrammi giunti dopo la vittoria.  Fra gli altri i seguenti:

« Squadra granata esultante sua vittoria inneggia cugini torinesi quinta volta campioni d'Italia - Torino F. C. ».
« Lieti salutarvi ancora campioni d'Italia confortaci vostro augurio e saluto, sollievo nostra amarezza - U. S. Livorno ».
« Ultimo a darvi un dispiacere desidero essere fra i primi a felicitarmi Baloncieri ».
«.Sommes enchantes cinquième championnat consecutif que seulement l’quipe hors classe comme Juventus pouvait remporter. Emoyons sincères felicitations - Fiat F. C. Genève ».

Hanno inoltre telegrafato l'on. Gastaldi, l'on Vecchini, Presidente del D. D. S., Gustavo Norzi.

Numerosissime società hanno inviato il loro plauso e, fra le altre: l'Alessandria, il Milan, il Brescia, la Lazio, la Roma, il Palermo, la Sampierdarenese, la ProVercelli, il Novara, il Bari, il Genova, la Cremonese, l'Atalanta, la Doria, il Catania, l'Imperia, il Treviso, il Grosseto, la Juventus di Trapani, il Savona, il Siena, il Valpollice, il Lugano, il Zurigo.

Non sono mancati, naturalmente, i telegrammi dei « tifosi ». Eccoli:

« Un professore milanese, barbuto ma non barbogio, plaude al trionfo della volontà indomabile».
« Svenuti dopo risultato - Baci a tutti voi e dirigenti - Sportivi veronesi ».
 « Avete vinto contro avversari e «pegola » allenti - Sportivi di Vicenza ».
Chi mira ad altre conquiste ha telegrafato bene augurando per la prossima Coppa Europa e per il... sesto scudetto consecutivo. 
Persino dall'Africa alcuni soci ed ammiratori juventini in grigio verde hanno voluto far giungere il loro « evviva » che è stato fra i più graditi.
La Direzione del F. C. Juventus comunica intanto di aver avuto avviso che giovedì alle ore 18 alla Casa Littoria il Federale riceverà i dirigenti ed i giuocatori della squadra campione d'Italia


Martedì 16 Ottobre 1934
Il fenomeno Juventus e Serantoni in bianconero (riadattati)
Una sola cosa dà il senso... della noia. Il fatto che la Juventus continui a vincere e già sia al comando. L'anno scorso dopo tre partite i bianco neri non avevano che un punto all'attivo e c'era da discutere sullo straordinario evento e da appassionarsi, poi all'inseguimento che i campioni furono costretti a condurre. Ora, invece, con un incontro in casa e due in campo avversario, già totalizzano sei punti. La volata è cominciata in partenza. Carcano non discute: agisce. Ebbene, brontoli chi crede per questa riconferma dì forza dell'unità che detiene lo scudetto. Se ne dispiaccia chi vuole, chi sperava che dovesse infine sparire dalle posizioni d'avanguardia questo inattaccabile colosso. Noi non avremo, invece, che dell'ammirazione per questa squadra che da quando detiene il titolo s'è rinnovata in più punti senza mai avvertire disagio nell'ambientare gli elementi nuovi. Carcano non è un chiacchierone. Lascia che tutti si sbizzarriscano a discutere e dal canto suo opera. Che faccia bene, egregiamente bene, lo dimostrano i risultati. Ha dovuto sostituire Combi. Gian Piero era una colonna della squadra. Se c'era un « insostituibile » era lui. Era la bandiera della Juventus. Si diceva ch'era lui che la salvava nei momenti di maggior pericolo. Quando si seppe che era ben deciso a ritirarsi, non si fu del tutto convinti che Valinasso, un giovane che ancora doveva affermarsi, fosse in grado di rimpiazzarlo degnamente. Un altro allenatore, meno pratico e meno capace, si sarebbe presentato ai dirigenti ed avrebbe chiesto loro d'aprire la cassaforte per cavarne un grosso pacco di biglietti da mille. Dopo di che sarebbe partito alla ricerca di un « asso » consacrato. Se Carcano avesse fatto così nessuno avrebbe potuto muovergli appunti, perchè non si poteva pretendere che trovasse per poco prezzo l'uomo del quale aveva bisogno. Ma Carcano disse, invece, che Valinasso gli bastava ed ora non c'è chi non veda che davvero ha avuto ragione. Valinasso è già un punto di forza della squadra. Ha dovuto sostituire Rosetta. Un altro nazionale, un altro « cannone ». La Roma, in lite con Bernardini, ha finito con il far pace, perchè il giocatore gli occorreva e non sapeva come rimpiazzarlo. Il Napoli non è stato tranquillo sino a quando non ha riavuto nelle sue file i « dissidenti » Ferraris e Colombari. Carcano avrebbe potuto chiedere che Rosetta gli fosse ridato ad ogni costo. Invece non ha voluto porre i dirigenti in una situazione imbarazzante. Eppure aveva dovuto privarsi anche di Ferrero, che era l'unico uomo di rincalzo sul quale poteva fare sicuro assegnamento. Così Ferrero ebbe la libertà. Carcano chiese Foni, che nessun altro grande club gli disputava con cifre rilevanti. I tecnici sono molti, molti gli intenditori, ma Foni nessuno l'aveva adocchiato. 

E che dire di Serantoni ? Chi n'avesse parlato l'anno scorso nelle sale del circolo juventino sarebbe stato guardato in cagnesco. Quel « piantagrane » ? Ma Carcano conosceva il valore, il cuore, la volontà del ragazzo. Quando questi si offrì, disse che a prenderlo c'era da fare un affarone. Allora gli juventini alzarono le spalle, come a dire: « Se lo vuole è affar suo ». Ma pensarono che da allenatore Carcano avrebbe dovuto imitarsi in... domatore. Fu a Bro che Serantoni si incontrò con i nuovi compagni. Che proprio lo attendessero a braccia aperte non oseremmo dire. Temevano di non andare d'accordo con « quel nero-azzurro» ch'era troppo amico di Meazza per diventare un buon « bianconero ». Serantoni trovò i compagni sprofondati nelle comode poltrone di un hotel. Mosse loro incontro sorridente: «Come va, «vecchioni? Sono venuto ad aiutarvi, se no non andreste più avanti con quelle poche forze che vi sono rimaste.'... ». Lo guardarono tutti con diffidenza. Dovevano ridere della sua battuta oppure rispondergli per le rime? Ci pensò Orsi. Lo afferrò per la giubba, lo scosse ben bene e con tono melodrammatico ribattè: «Senti « macaco ». Noi siamo dei vecchioni. E' vero, verissimo, ma abbiamo — e parlava per molti dei compagni — vinto un campionato del mondo, una Coppa Internazionale, non so quante partite in maglia azzurra, tutta una serie di scudetti. Ora insegneremo anche a te come si fa per farsi onore. Ma sappi che con noi devi giocare con lo stesso cuore con il quale ti battevi per l'Ambrosiana. Devi giocare, capisci? Se vuoi « scarpona » pure. Mangiali magari gli avversari... ». Ed ammiccò a Bertolini che di « Sera » non aveva il migliore ricordo. Risero tutti. Abbracciarono il « nuovo » come un caro amico. Due ore dopo era anche lui in campo, in maglia bianco-nera e quando Orsi gli gridò: « Toni! Picchia! », si gettò con tanta forza contro un terzino che faceva lo scarpone, che questi, visto con chi aveva a che fare, ritenne prudente moderare il suo slancio. E Carcano, che non dubitava di amalgamare nella squadra quello che sino a poco prima era considerato un « nemico », non ebbe neppur bisogno di imporlo con un atto di forza. Capite quale è la forza della Juventus? Alla classe si unisce la volontà. E la disciplina regna sovrana. Non ci son beghe, non ci sono discordie, bensì l'unione assoluta per mirare alla vittoria. Così a Brescia quando Borel si impappina è Orsi che si sposta con frequenza al centro per aiutarlo. Ed a Sampierdarena, mentre Monti stenta a ritrovare l'autorità del suo gioco sull'infido terreno, sono Ferrari e Serantoni che retrocedono ad aiutarlo, cacciando fuori la lingua per il gran correre da un capo all'altro del campo. Poi, a partita finita, nessuno grida, nessuno si vanta, nessuno accusa. Giocano tutti insieme a « bridge » come amici di vecchia data. Tutt'al più sarà ancor Orsi a dar un buffetto a Valinasso nel dirgli: « Va la! spilungone, sei un fenomeno! ». Per il ragazzo quello è il premio più caro Ecco com'è questa «noiosa» Juventus. Che non intenda scucir lo scudetto dalle maglie è evidente. Che possa conquistar la quinta vittoria tutti lo pensano.

Serantoni
Pietro Serantoni nasce il 12 dicembre 1906. Nel 1927, a poco più di vent’anni è militare, a Milano, gioca nella Minerva in seconda divisione in attesa di tornare a Venezia. Lo nota Arpad Veisz, allenatore dell’Inter: per trecento lire al mese diventa nerazzurro. Nel 1929/30 è promosso titolare, debutta a Livorno e Veisz gli assegna il compito più difficile, fermare il celebre livornese Magnozzi. Ci riesce e l’Inter vince 2-1. Non salta una partita, conquista il primo scudetto a girone unico. Trova un amico, Meazza, un ragazzino esile e sperduto in mezzo ai marcantoni delle difese. Ed allora guai a toccarlo, Serantoni  è pronto a spietate vendette. Con il “Pepp” fa coppia fissa, dentro e fuori dal campo e l’amicizia continua anche quando il calcio diventa solo un ricordo. Esordisce in Nazionale, giocando a Bruxelles contro il Belgio (3-2 con due goal di Meazza). La Juventus lo acquista sborsando la cifra di 65.000 Lire, un anno in bianconero (1934/35), partecipa all’eliminatoria mondiale con la Grecia a Milano (4-0) ed il 14 novembre del 1934 è uno dei “Leoni di Highbury”. Conquista il pubblico londinese per le sue doti di combattente e gladiatore, a fine partita scende negli spogliatoi, per congratularsi con lui, Guglielmo Marconi. Uno scudetto bianconero con 15 presenze e l’infortunio, menisco. L’operazione, settanta anni fa, è piena di incognite, anzi è una quasi certa condanna: niente più calcio. «E qui», raccontava, «nella sfortuna sono stato fortunato. Con un’altra società avrei dovuto smettere di giocare, la Juventus era diversa. Mi fece curare, guarire, ma poi mi cedette alla Roma. Forse non credeva nel miracolo». Nel 1936 debutta in giallorosso a Vienna (sconfitta per 3-1), gioca nella squadra dell’Europa Centrale (3-1 all’Europa Occidentale) ed esplode ai Campionati Mondiali in Francia. Viene giudicato uno dei laterali di maggior valore in campo mondiale. Pozzo lo giudica così: «Serantoni non è un tecnico di qualità eccezionali. È un combattente di levatura eccelsa, nelle situazioni difficili è l’uomo che trascina alla lotta l’intera squadra». Portabandiera della Roma, gioca l’ultimo campionato nel 1939/40 e si ritira. Dopo la guerra, accetta l’incarico di allenatore del Suzzara, del Padova (che portò in A) e per qualche mese della Roma: «Ma il calcio non è più per me, troppi furbi». Lo delude soprattutto la Roma, che cerca di salvare dalla B sostituendo Masetti e che, invece, poco dopo lo licenzia. Due episodi: è in ritiro, con la Nazionale. Piove, Pozzo dice niente allenamento e tutti tornano in camera od a giocare a carte. “Toni” invece si mette a correre nell’albergo, sale e scende ininterrottamente le scale. Pozzo lo ferma: «Sei matto?» e lui spiega: «Io devo allenarmi. Se fuori non posso, lo faccio qui!» Nel 1936 la Nazionale gioca a Berlino, nel secondo tempo si frattura l’alluce del piede destro (lo stesso infortunio che aveva messo fuori combattimento Monti ad “Highbury”) ma lui non esce. Chiede solo a Pozzo che, dalla linea del campo, gli scandisca i minuti che mancano alla fine dell’incontro e gioca fino alla fine. Pozzo disse: «Ancora adesso non riusciamo a capire come poté superare quel dolore spaventoso, reggendosi in piedi fino al termine della partita. Il medico tedesco, che lo visitò in infermeria, mi disse che non credeva che un uomo potesse giungere a tale punto di stoicismo». Morirà il 6 ottobre del 1964, ucciso da un tumore al cervello.