martedì 17 giugno 2014

Dal 1957 al 1961

1957-1958
Il mercato estivo ebbe tra i protagonisti il Milan, l'Inter ed il Bologna, che piazzarono colpi di rilievo internazionale. I rossoneri campioni uscenti acquistarono l'argentino Ernesto Grillo; anche il suo connazionale Angelillo sbarcò a Milano, ma tra le file nerazzurre, mentre la società felsinea si aggiudicò Maschio e lo jugoslavo Vukas, uno dei mattatori nella partita che la sua nazionale vinse nettamente (6-1) contro l'Italia il 12 maggio 1957. Proprio quella partita aveva destato l'interesse di varie società per il calcio serbo-croato; con diverse fortune, lo stesso Bologna, la Lazio, il Torino e una Juventus ricca d'incognite (vennero ingaggiati i poco conosciuti Charles e Sívori) scelsero allenatori slavi. Solo per quest'anno la squadra classificatasi al penultimo posto avrebbe dovuto giocare uno spareggio contro la seconda della Serie B. L'introduzione di una regola transitoria per le retrocessioni sottolineò lo stato caotico in cui versava all'epoca la dirigenza federale: in prima battuta, infatti, per dar maggior spazio alla Nazionale il Consiglio Federale aveva deliberato la riduzione del campionato a 16 squadre dal 1958, per cui quest'anno ci sarebbero state tre retrocessioni a fronte di un'unica promozione dalla B. La delibera trovò però la ferma opposizione della Lega, che la denunciò come invalida per abuso di potere e dettata da motivi politici (la situazione della Nazionale, che sfocerà poi nel disastro di Belfast, aveva spinto vari politici a chiedere il commissariamento della FIGC. L'accusa della Lega era dunque che la delibera fosse stata deliberata dai dirigenti federali per salvare le proprie cariche, che sarebbero state cancellate da un eventuale commissario). Il braccio di ferro continuò mesi finché il nuovo presidente della Lega Giuseppe Pasquale, succeduto a Saverio Giulini escluso nel caos generato dal disastro di Belfast (ovvero l'eliminazione dell'Italia dal Mondiale 1958 a opera dell'Irlanda del Nord il 5 gennaio 1958, durante le qualificazioni), riuscì ad imporre il proprio Lodo Pasquale che a metà stagione cancellò la riduzione degli organici e, anzi, riuscì a rendere solo eventuale una delle due retrocessioni, nell'intento di una maggior garanzia degli investimenti fatti dalle società di A per sostenere il professionismo. La partenza sorrise alla Juventus, con Charles sugli scudi. Sei vittorie in altrettante giornate permisero alla squadra bianconera di raggiungere la vetta solitaria, seguita a ruota dal Napoli. Ben poco felice fu l'inizio del Milan, che vinse solo una volta nelle prime quattordici partite e si ritrovò in piena zona retrocessione. A destare sorpresa furono inizialmente le neopromosse; la ritrovata Alessandria, interprete di un solido catenaccio, rimase a lungo nelle posizioni medio-alte della classifica, e così il debuttante Verona che condusse un girone d'andata di buon livello. A mettersi in luce e a dimostrare una migliore continuità fu però il Padova di Nereo Rocco, anch'esso votato in larga misura alla difesa, ma sorretto dalla vena degli attaccanti Hamrin e Brighenti. La Juventus, vinto il simbolico titolo di campione d'inverno, tenne a debita distanza le inseguitrici; lo spostamento dell'esperto Boniperti a trequartista aveva permesso a Charles e Sívori di esprimere tutto il loro potenziale sotto porta. Una nuova serie di risultati utili, all'inizio del girone di ritorno, permise ai bianconeri di allungare a +8 sul pur vivace Padova, che si lasciò dunque raggiungere dalla Fiorentina, nuovamente seconda, e dal Napoli. A tre turni dal termine la Juventus vinse matematicamente il titolo, diventando la prima squadra italiana a cucire sul petto la stella dorata dei dieci scudetti vinti[1]. Distanti le milanesi, none: il Milan seppe compensare con un buon cammino in Coppa dei Campioni. In zona retrocessione piombò il Verona, artefice di un pessimo girone di ritorno, presto seguito dall'Atalanta, mentre Sampdoria e Genoa recuperarono posizioni solo nel finale. La classifica fu, ancora una volta, sconvolta dal giudice sportivo, che declassò i bergamaschi ritenuti colpevoli di tentato illecito nella gara giocata a Padova.[2] Alle gare di qualificazione contro il Bari si presentò dunque il Verona, doppiamente sconfitto dai pugliesi.

[1] : Correva l'anno 1958 e in occasione della conquista del decimo scudetto, l'allora presidente della Juventus, Umberto Agnelli propose di celebrarlo sulla maglia con l'applicazione di una stella. Esisterebbe infatti un comunicato della Figc che nel maggio del 1958 con un comunicato ufficiale scrisse: " «Il ConsiglioFederale, su proposta del presidente della Lega Nazionale,delibera l’istituzione di un particolare distintivo di cui possono e potranno fregiarsi le società che abbiano vinto 10 campionati di Divisione Nazionale Serie A». Nel successivo mese di luglio ci fu poi una precisazione: "Per la conquista di 10 campionati di Serie A viene istituito uno speciale distintivo costituito da una stella d’oro a cinque punte. È stato espresso al Consiglio Federale il parere che la Juventus, fregiatasi appunto di 10 scudetti, applichi sulle proprie maglie anche tale distintivo".

[2] : L'equivoco nacque a causa dell'entrata in scena, nel corso delle indagini, di Eugenio Gaggiotti, personaggio pluripregiudicato coinvolto nei maggiori scandali sportivi degli anni cinquanta, tanto che la FIGC aveva da tempo deliberato una disposizione d'emergenza secondo la quale il solo fatto di aver rapporti con lui avrebbe comportato la radiazione per i tesserati e la retrocessione per le società. La posizione dell'Atalanta fu a priori considerata sospetta [1] essendo stata toccata, seppur come parte offesa, dal precedente Scandalo Scaramella, ma in realtà la società bergamasca riuscì tempo dopo a dimostrare di non essere invischiata nella vicenda. Per approfondire si legga il caso Azzini : Durante la fase finale del campionato di Serie A 1957-1958 l'Atalanta si trovava negli ultimi posti e rischiava seriamente di retrocedere, mentre il Padova era secondo in classifica, dietro solamente alla Juventus. Il lunedì antecedente alla 26esima giornata si trovarono a Brescia, presso il distributore di benzina di via Piave, Bepi Casari — che durante la sua carriera vestì tanto la maglia nerazzura che quella biancoscudata, all'epoca dei fatti operaio presso un importante manifattura di camicie — e Eugenio Gaggiotti, personaggio famoso agli ambienti calcistici per la sua persistente presenza in episodi di compravendita di partite e già inibito dalla FIGC. I due, dopo una breve chiacchierata, andarono al ristorante Tre Camini di San Zeno Naviglio, nella periferia di Brescia, dove ad attenderli c'era Azzini, mediano dei patavini, tra i più quotati della squadra veneta. Fu quindi concordato un risultato addomesticato per l'imminente partita, grazie e soprattutto allo scarso impegno che Azzini aveva promesso; successivamente i tre si trasferirono a casa della signorina Silveria Marchesini, ex indossatrice e fidanzata con Azzini all'epoca dei fatti, dove perfezionarono l'accordo. Il viavai fu notato da Pietro Torosani, proprietario del distributore, situato proprio di fronte alla casa della Marchesini. Il 30 marzo si giocò Padova-Atalanta e Azzini non ebbe una giornata particolarmente felice, tant'è che il suo diretto avversario, il giovane centravanti Giovanni Zavaglio, segnò due reti, una delle quali propiziata da un errore molto vistoso di Azzini stesso. Il risultato destò scalpore e suscitò sospetti. Lo scandalo scoppiò quando la Marchesini, illusasi del matrimonio e delusa dai continui rinvii delle nozze del compagno, si decise a parlare. A distanza di sei giorni dalla gara incriminata, la Sampdoria, ugualmente interessata nella lotta per non retrocedere, segnalò alla Commissione di Controllo della FIGC una voce, secondo cui la partita Padova-Atalanta era stata truccata, facendo sapere che Silveria Marchesini conosceva tutti i particolari dell'illecito. La Commissione di Controllo incaricò l'avvocato Cesare Bianco di svolgere un'inchiesta; questi trovò altri teste, tra cui la signora Bossi, madre della Marchesini, l'allenatore del Padova Nereo Rocco, l'allenatore del Milan Luigi Bonizzoni e il calciatore del Padova Silvano Moro, tutti convocati per testimoniare su una lite tra quest'ultimo e Azzini negli spogliatoi a fine gara, originata dalle critiche agli errori plateali del mediano. Il processo vero e proprio, tenutosi a Roma, iniziò sabato 28 giugno e terminò domenica 29 giugno, pochi minuti prima della mezzanotte. Durante gli interrogatori, Casari e Gaggiotti, dopo alcuni tentativi di nascondersi, ammisero un incontro tra vecchi amici, mentre Azzini negò sempre tutto. Spuntò quindi il secondo testimone, di fatto la base dell'impianto accusatorio: il benzinaio Pietro Torosani, attraverso il quale si poté stabilire che l'incontro dei tre ai Tre Camini non fu affatto casuale, come provarono a far credere i tre protagonisti della vicenda; Torosani confermò tutto, fornendo molti dettagli, asserendo di aver assistito a buona parte del dialogo assai compomettente[2] e di aver giocato con Gaggiotti una schedina con il 2 fisso su Padova-Atalanta. Al processo emerse, in modo indiscutibile, che tanto la testimonianza della Marchesini come quella di Torosani furono sollecitate dietro l'esborso di somme ingenti di denaro: l'avvocato Augusto Crovetto, legale della Sampdoria dichiarò di aver versato 3 milioni e mezzo di lire alla Marchesini, la quale, dopo averlo negato, confermò la circostanza; il consigliere e rappresentante del Verona, dott. Carlo Bonelli, raccontò invece che a Torosani diede circa 700 mila lire per consentirgli di pagare alcuni debiti e gli assicurò un alloggio in affitto a Milano e un impiego.
Azzini espresse il suo disappunto ai giornalisti, mentre l'avv. Bianco sottolineò la regolarità del processo. Non è lecito infamarmi gratuitamente sulla base di testimonianze comprate. La sentenza mi ha lasciato di stucco. Persino il PM, dopo che abbiamo portato le prove che le testimonianze a carico erano state pagate, si è trovato imbarazzato nel sostenere l'accusa. Casari, tutti lo sanno è mio amico. Quanto a Gaggiotti lo conoscevo come un tipo un po' strambo e cercavo di evitarlo il più possibile. Quella sera maledetta è capitato alla trattoria da solo e non è stato da me invitato. Sono stato vittima di vendette personali e forse anche della torbida situazione che inquina il calcio nazionale. (Renato Azzini)
È vero che i testi del caso Azzini sono stati pagati, ma ciò non significa in linea giuridica che le loro deposizioni dovessero finire nel cestino della carta straccia. Taluni fatti, come quello del convegno tra Gaggiotti e Casari al distributore di benzina, prima di raggiungere Azzini alla trattoria dei Tre Camini, con la macchina dell'ex portiere, sono stati provati; inoltre nel montare l'accusa mi sono valso soltanto delle circostanze scrupolosamente accertate, abbandonando per esempio le alcune deposizioni rese dalla signorina Marchesini e dal signor Torosani, perché non confortate da elementi di prova.  (Avv. Cesare Bianco, PM al processo calcistico e giudice della Commissione di Controllo).
Il 29 giugno 1958 alle ore 23:50 la Commissione di Controllo della FIGC, in applicazione dell'art. 28 del Regolamento Organico dichiarò responsabili dei fatti il calciatore Renato Azzini e la società Atalanta. Applicato l'art. 59 del Regolamento Organico la stessa Commissione deliberò: il ritiro definitivo della tessera FIGC a Renato Azzini, con la conseguente squalifica a vita la retrocessione dell'Atalanta all'ultimo posto in classifica del campionato di Serie A 1957-58 l'inibizione permanente alle società di tesserare i signori Renato Azzini e Giuseppe Casari il rinnovo alla diffida a tutte le società e a tutti i tesserati della FIGC dall'avere qualsiasi rapporto con il signor Eugenio Gaggiotti. Il 13 luglio 1958 si riunì a Roma la Commissione d'Appello Federale per esaminare i ricorsi presentati dall'Atalanta e da Azzini contro la sentenza emessa il 29 giugno, respingendo entrambe le istanze.
A Bergamo, dopo la condanna dell'Atalanta, le dimissioni del presidente Turani e di tutti i consiglieri causarono stupore negli ambienti sportivi. Tuttavia Azzini continuò la propria battaglia e ottenne una riduzione della pena il 3 novembre 1959, quando la CAF della FIGC decise di limitargli la squalifica a due anni, fino al termine della stagione 1959-1960. L'Atalanta fu conseguentemente prosciolta dall'addebito di responsabilità oggettiva.

Dopo tre anni di sofferenza e anonimato, per la Juventus si apre un nuovo ciclo. Sotto la presidenza di Umberto Agnelli, deciso a far tornare la Juve ai vertici, la stagione 1957-58 è quella del decimo scudetto, della prima stella che fa entrare i bianconeri nella storia del calcio italiano come prima squadra a raggiungere questo traguardo, talmente importante che la Federcalcio concede il diritto di imprimere per sempre sulle maglie bianconere una stella d’oro. La squadra è cambiata, in avanti sono partiti Hamrin e Conti ceduti rispettivamente a Padova e Atalanta, per far posto a due giocatori che avrebbero fatto la storia del club bianconero: il gallese John Charles e l’argentino Omar Sivori, veri condottiere della nuova Juventus. In panchina, il traghettatore Depetrini ha lasciato il posto al serbo Ljubisa Brocic. In Campionato si parte benissimo, con 6 vittorie e due pareggi nelle prime otto giornate e alla fine del girone d’andata la Juventus ha 25 punti, due in più del Napoli e del Padova di Nereo Rocco. Anche il girone di ritorno sarà nel segno di bianconeri che a fine stagione staccheranno di otto punti la Fiorentina, mettendo in vetrina un attacco che segna 77 gol, ma una difesa forse ancora da registrare (44 le reti subite). In estate, dopo quindici anni di assenza, torna anche la Coppa Italia: la Juventus esce alle semifinali.


Pos.
Squadra
Pt
G
V
N
P
GF
GS
DR
1.
Juventus
51
34
23
5
6
77
44
+33
2.
Fiorentina
43
34
16
11
7
56
36
+20
3.
Padova
42
34
16
10
8
55
42
+13
4.
Napoli
40
34
17
6
11
65
55
+10
5.
Roma
36
34
12
12
10
46
42
+4
6.
Bologna
34
34
12
10
12
47
43
+4
7.
L.R. Vicenza
33
34
13
7
14
51
48
+3
7.
Torino
33
34
11
11
12
42
49
-7
9.
Milan
32
34
9
14
11
61
47
+14
9.
Udinese
32
34
10
12
12
51
46
+5
9.
Inter
32
34
10
12
12
36
36
0
12.
Genoa
30
34
9
12
13
53
60
-7
12.
Sampdoria
30
34
9
12
13
54
62
-8
12.
Alessandria
30
34
9
12
13
36
42
-6
12.
Lazio
30
34
10
10
14
45
65
-20
12.
SPAL
30
34
10
10
14
32
52
-20
17.
Atalanta
28
34
6
16
12
29
49
-20
18.
Verona
26
34
10
6
18
44
62
-18

Girone Andata
Girone Ritorno
Juventus
25
Juventus
26
Napoli
23
Fiorentina
22
Padova
23
Genoa
19
Fiorentina
21
Padova
19
Roma
20
Udinese
19

In casa
In trasferta
Juventus
31
Juventus
20
Fiorentina
29
Fiorentina
14
Padova
29
Bologna
13
Napoli
27
Inter
13
Lazio
26
Napoli
13
L.R. Vicenza
25
Padova
13
Roma
24
Roma
12

Record
Maggior numero di vittorie: Juventus (23)
Minor numero di sconfitte: Juventus (6)
Miglior attacco: Juventus (77 reti fatte)
Miglior differenza reti: Juventus (+33)

Capolista solitarie
dalla 3ª alla 34ª giornata: Juventus


Data
Incontro
Ris
08/09/1957
Juventus - Verona
3 - 2
15/09/1957
Udinese - Juventus
0 - 1
22/09/1957
Juventus - Genoa
3 - 2
29/09/1957
Spal - Juventus
0 - 1
06/10/1957
Juventus - Padova
2 - 1
13/10/1957
Torino - Juventus
0 - 1
20/10/1957
Milan - Juventus
1 - 1
27/10/1957
Juventus - Inter
3 - 1
03/11/1957
LR Vicenza - Juventus
2 - 1
10/11/1957
Juventus - Lazio
3 - 1
17/11/1957
Bologna - Juventus
3 - 4
24/11/1957
Juventus - Napoli
1 - 3
08/12/1957
Juventus - Atalanta
3 - 0
15/12/1957
Fiorentina - Juventus
2 - 1
05/01/1958
Alessandria - Juventus
1 - 2
08/01/1958
Juventus - Sampdoria
4 - 1
19/01/1958
Roma - Juventus
4 - 1
26/01/1958
Verona - Juventus
2 - 3
02/02/1958
Juventus - Udinese
2 - 0
09/02/1958
Genoa - Juventus
1 - 3
16/02/1958
Juventus - Spal
3 - 1
23/02/1958
Padova - Juventus
1 - 1
02/03/1958
Juventus - Torino
4 - 1
09/03/1958
Juventus - Milan
1 - 0
16/03/1958
Inter - Juventus
2 - 2
30/03/1958
Juventus - LR Vicenza
5 - 2
06/04/1958
Lazio - Juventus
1 - 4
13/04/1958
Juventus - Bologna
4 - 1
20/04/1958
Napoli - Juventus
4 - 3
27/04/1958
Atalanta - Juventus
0 - 0
04/05/1958
Juventus - Fiorentina
0 - 0
11/05/1958
Sampdoria - Juventus
3 - 2
18/05/1958
Juventus - Alessandria
2 - 1
24/05/1958
Juventus - Roma
3 - 0


Coppa Italia 1957/58

Girone Eliminatorio A


08/06/1958
Pro Vercelli - Juventus
1 - 1


15/06/1958
Biellese - Juventus
2 - 4


22/06/1958
Juventus - Torino
2 - 0


29/06/1958
Juventus - Pro Vercelli
4 - 1


06/07/1958
Juventus - Biellese
3 - 1


13/07/1958
Torino - Juventus
1 - 2


Quarti di Finale

07/09/1958
Sampdoria - Juventus
2 - 3

Semifinali

14/09/1958
Lazio - Juventus
2 - 0


Finale 3° Posto

15/10/1958
Juventus - Bologna
3 - 3
  
                            
                            CURIOSITA’: La Juventus perde per sorteggio

1958-1959
Dopo un anno di digiuno il Milan di Gipo Viani ritornò alla vittoria dello scudetto: fu un successo tribolato a cui contribuì in maniera fondamentale il giovane attaccante brasiliano José Altafini che, alla sua prima stagione in Italia, mise a segno 28 reti: in questo campionato, solamente Angelillo dell'Inter fece meglio (33 gol, 5 dei quali nella gara Inter-SPAL). Sempre in fatto di reti ricordiamo che in questa stagione la Fiorentina, con 95 marcature all'attivo, stabilì il nuovo record (ancora imbattuto) per i campionati a 18 squadre. Da ricordare infine le tre più prolifiche coppie d'attaccanti: Angelillo-Firmani, 53 gol; Hamrin-Montuori, 48; Altafini-Danova, 44. Il campionato iniziò il 21 settembre 1958: subito il Milan andò in testa, ma alla sesta giornata la sconfitta contro il Lanerossi Vicenza costò ai rossoneri il primo posto, ceduto alla Fiorentina. Due settimane dopo, il 16 novembre, i lombardi vincono al novantesimo minuto sul campo dei campioni uscenti della Juventus in una gara conclusa sul 4-5, e agganciarono i viola in vetta. Le due squadre si alternarono in testa per tutto il girone d'andata; alla fine, il 25 gennaio 1959, il Milan fu campione d'inverno con un punto di vantaggio sui toscani. Una settimana dopo le due contendenti si ritrovarono nuovamente in testa a pari punti. Il girone di ritorno continuò sulla falsariga del primo: Milan e Fiorentina si contesero il primo posto; Inter e Juventus non riuscirono a raggiungerle. Il 12 aprile i rossoneri vinsero lo scontro diretto a Firenze, superando i viola e portandosi in testa; ma il pareggio interno contro la SPAL, una settimana dopo, vanificò tutto. Per la svolta si dovette aspettare ancora una settimana: il 26 aprile furono proprio i ferraresi a ottenere un'inattesa vittoria a Firenze, mentre il Milan pareggiò 3-3 contro il Torino ultimo in classifica. Durante la gara si scatenò una rissa che mandò in infermeria due giocatori rossoneri, ma il Giudice Sportivo non assegnò la vittoria a tavolino al Milan: in segno di protesta il presidente Andrea Rizzoli si dimise. Il Milan mantenne comunque il prezioso punto di vantaggio fino alla fine e i viola mollarono la presa; battendo per 7-0 l'Udinese il 2 giugno i rossoneri si laurearono Campioni d'Italia con un turno d'anticipo e tre punti di vantaggio. Retrocessero due squadre blasonate: per la prima volta in Serie B ci andò il Torino, pieno di problemi economici e sponsorizzato in questa stagione dalla Talmone. Con i granata retrocesse anche la neopromossa Triestina, alla sua ultima stagione in massima serie. Dopo la difficile promozione ottenuta l'anno precedente, si salvò invece il Bari.

La Coppa Italia 1958-1959 è stata la dodicesima edizione del secondo torneo calcistico italiano.
Curiosamente questa edizione iniziò quando ancora quella precedente era in pieno svolgimento. Infatti non appena le otto società ancora in corsa per la coppa del 1958 si ritrovarono dopo le vacanze estive, quelle eliminate incominciarono a darsi battaglia per la successiva. Il regolamento, che ripristinava dopo una sola stagione il tabellone ad eliminazione diretta integrale, prevedeva quattro turni eliminatori: il primo riservato ai club di Serie C, il secondo che vedeva l'ingresso delle formazioni di Serie B, e gli ultimi due che registravano l'ingresso delle squadre di Serie A. Le otto formazioni sopravvissute accedettero al tabellone principale insieme alle otto finaliste della precedente edizione, e a questo punto si proseguì ad eliminazione diretta fino alla finale, vinta dalla Juventus a San Siro contro l'Inter che sprecò incredibilmente il vantaggio casalingo. Per i bianconeri era la terza affermazione nella manifestazione.

Juventus-Alessandria 6-2 dts agli ottavi, Juventus-Fiorentina 3-1 ai quarti, Juventus-Genoa 3-1 in semifinale, 13settembre1959 finale a Milano Inter-Juventus 1-4

Tabellino
Internazionale: Matteucci (Da Pozzo); Guarneri, Gatti; Masiero, Cardarelli, Bolchi; Bicicli, Firmani, Angelillo, Corso, Rizzolini.
Juventus: Mattrel; Castano, Sarti; Emoli, Cervato, Colombo; Boniperti, Nicolè, Charles, Sívori, Stivanello.
Arbitro: Jonni di Macerata.
Reti: Charles (7'), Cervato (27'), Bicicli (36'), Sívori (63'), Cervato (79' su rigore).

Dopo la conquista del decimo scudetto, nella Juventus torna l’entusiasmo perso fino a qualche anno prima, ma la nuova stagione non ripercorre i successi a cui ci avevano abituati Sivori e compagni. La prima partecipazione alla Coppa dei Campioni, infatti, si conclude con una terribile umiliazione a Vienna dove il Wiener Sport Klub vince per 7-0, e il campionato procede a scatti. Gli stessi Sivori e Charles non segnano più come l’anno precedente e i contrasti tra il fuoriclasse argentino e l’allenato Brocic vanno acuendosi fino all’esonero del serbo, sostituito dal fedelissimo Depetrini che torna a fare il traghettatore come due anni prima. I bianconeri sembrano rigenerati (fanno registrare ben 12 risultati utili consecutivi) e riescono a risalire la classifica, senza però riuscire ad andare oltre al quarto posto. A consolare questa stagione interlocutoria, la conquista della terza Coppa Italia.



Data
Incontro
Ris
21/09/1958
Spal - Juventus
0 - 0
28/09/1958
Juventus - Udinese
3 - 0
05/10/1958
Padova - Juventus
1 - 4
12/10/1958
Juventus - Napoli
2 - 0
19/10/1958
Roma - Juventus
3 - 0
26/10/1958
Juventus - Talmone Torino
4 - 3
02/11/1958
Fiorentina - Juventus
3 - 3
16/11/1958
Juventus - Milan
4 - 5
23/11/1958
Bari - Juventus
1 - 1
30/11/1958
Juventus - LR Vicenza
2 - 3
18/12/1958
Inter - Juventus
1 - 3
21/12/1958
Juventus - Sampdoria
1 - 0
28/12/1958
Alessandria - Juventus
2 - 2
04/01/1959
Juventus - Bologna
2 - 2
11/01/1959
Triestina - Juventus
0 - 3
18/01/1959
Juventus - Lazio
6 - 1
25/01/1959
Genoa - Juventus
0 - 1
01/02/1959
Juventus - Spal
1 - 1
08/02/1959
Udinese - Juventus
0 - 4
15/02/1959
Juventus - Padova
2 - 1
22/02/1959
Napoli - Juventus
0 - 0
02/03/1959
Juventus - Roma
2 - 0
15/03/1959
Talmone Torino - Juventus
3 - 2
22/03/1959
Juventus - Fiorentina
3 - 2
29/03/1959
Milan - Juventus
1 - 1
05/04/1959
Juventus - Bari
2 - 2
12/04/1959
LR Vicenza - Juventus
1 - 0
19/04/1959
Juventus - Inter
3 - 2
26/04/1959
Sampdoria - Juventus
3 - 2
17/05/1959
Juventus - Alessandria
2 - 2
24/05/1959
Bologna - Juventus
4 - 1
28/05/1959
Juventus - Triestina
4 - 0
02/06/1959
Lazio - Juventus
1 - 0
07/06/1959
Juventus - Genoa
4 - 3


Coppa dei Campioni 1958/59

Sedicesimi di Finale

24/09/1958
Juventus - Wiener SK (AUT)
3 - 1

01/10/1958
Wiener SK (AUT) - Juventus
7 - 0


Coppa dell'Amicizia Italo-Francese 1959

14/06/1959
Stade de Reims (FRA) - Juventus
3 - 4

02/09/1959
Juventus - Stade de Reims (FRA)
5 - 2

Coppa Italia 1958/59

Ottavi di Finale

22/04/1959
Juventus - Alessandria
6 - 2

Quarti di Finale

10/06/1959
Juventus - Fiorentina
3 - 1


Semifinali

06/09/1959
Juventus - Genoa
3 - 1


Finale

13/09/1959
Inter - Juventus
1 - 4


JUVENTUS – FIORENTINA 3-2 (1-1)
Torino, Stadio Comunale, 22.03.1959 - 24ª Giornata
RETI: 28’ Lojacono rig. (F); 38’ Sivori (J); 63’ Sivori (J); 74’ Gratton (F); 86’ Sivori (J)
JUVENTUS: Vavassori, Corradi, Garzena; Emoli, Castano, Colombo; Muccinelli, Boniperti, Nicolè; Sivori, Stivanello. – All. Depetrini.
FIORENTINA: Albertosi, Robotti, Castelletti; Chiappella, Orzan, Segato; Hamrin, Gratton, Montuori; Lojacono, Carpanesi. – All. Czeizler.
ARBITRO: Marchese di Napoli
CRONACA: Aveva già del miracoloso, credete, che la Juve fosse riuscita a legittimare quel risultato di parità che sembrava dovesse fatalmente sanzionare questa splendida, appassionante partita. Orbate la squadra campione di tanto Charles, ed obbligatela (proprio così: o mangiare quella minestra o saltare dalla finestra) a recuperare un Boniperti fermo da un mese: ne avrete in potenza, nonostante la commovente abnegazione del “capitano”, una mezza Juventus. Orbene, questo “undici” campione al cinquanta per cento, a quattro minuti dalla fine ha offerto il miracolo della vittoria con un “numero” di fantasia del suo estroso hombregol, quel Sivori che oggi latitava come interno ma che sfruttava con spietata inesorabilità gli errori altrui. Trovò per strada le prime due reti, si può dire. Ma quella terza la teneva forse in serbo per l’esplosione conclusiva, filtrò nella retroguardia viola come imprendibile fantasma, in punta di bulloni: sbilanciato dal tiro da posizione angolata finì a terra, ed il caso – bizzarro arbitro del destino di un match – fece sì che la respinta di testa di un difensore avversario facesse ricadere la sfera proprio sul suo piede sinistro, quasi che ne fosse calamitata: e lui, Sivori, da terra trovò lo spiraglio del gol. Così la Juventus ha vinto una partita che due ore prima sarebbe stata follia pronosticarla. E va detto che la squadra campione non ha rubato nulla, e che sul piano del gioco è stata perlomeno all’altezza della più qualificata rivale. Non ha abdicato alle sue chances, anche quando l’andamento della partita avrebbe forse consigliato maggior prudenza (sul 2-1 a favore, ad esempio). Macchè! La Juventus sapeva di giocare il match dell’orgoglio e non ha voluto mortificare se stessa, il suo nobilissimo blasone. Che poi molti fattori abbiano contribuito a facilitare il successo, ebbene ciò rienta in quel quid di incognita che ogni incontro riserba, e che del resto è elemento basilare per fare del football il più interessante gioco del mondo. […] A questo punto va detto che la retroguardia bianconera ha il merito maggiore per la strepitosa affermazione conseguita dal complesso. Garzena ha duellato con Hamrin da pari a pari; Castano lo ha emulato nei confronti di Montuori. Ma soprattutto l’attività dei laterali è risultata determinante. Emoli ha bloccato Lojacono (scusate tanto) ed ha inoltre offerto una prestazione superiore come elemento di raccordo e di propulsione: il migliore in campo, a parer nostro, in assoluto. E poi Colombo, inesauribile suggeritore dei temi d’offesa (la posizione arretrata di Gratton aveva in pratica stabilito tra i due un sottinteso…patto di non aggressione). Aggiungesi in commovente Boniperti di tre quarti di partita (sin che, cioè, gambe e riflessi lo hanno sorretto) ed avrete la spiegazione prima di questo centro-motore bianconero che ha dato oggi tono ed autorità al confronto. E che dire, poi, della superattività di Muccinelli, ora tornante ed ora lanciato in profondità per il cross a regola d’arte? E di Sivori, che le reti le segna a tre per volta? L’attacco bianconero, per i più efficaci spunti d’offesa, ha avuto oggi, inoltre, un Nicolè colossale, il Nicolè di Colombes e di Marassi, tanto per intenderci. E ciò ha limitato i…danni di un Sivori dribblomane e fine a se stesso (gol a parte) e di uno Stivanello semplicemente disastroso (non ne ha indovinata mezza). Vavassori e Corradi completano l’esame dei bianconeri: non sempre sicuro tra i pali, ma formidabile nelle uscite il primo; un po’ troppo classicheggiante, e spesso a scapito della praticità, il secondo. […] – da La Gazzetta dello Sport del 23.03.1959
CLASSIFICA: Fiorentina, Milan p. 37; Internazionale, Juventus p. 33; L.R. Vicenza, Sampdoria p. 27; Bologna, Napoli p. 25; Padova p. 24; Roma, Lazio p. 22; Genoa p. 21; Bari, Spal p. 18; Alessandria p. 17; Triestina p. 16; Torino, Udinese p. 15

INTERNAZIONALE - JUVENTUS 1-4 (1-2)
Milano, Stadio San Siro, 13.09.1959 - Coppa Italia – Finale
RETI: 7’ Charles (J); 27’ Cervato (J); 36’ Bicicli (I); 63’ Sivori (J); 79’ Cervato rig. (J)
INTERNAZIONALE: Matteucci, Guarneri, Gatti; Masiero, Cardarelli, Bolchi; Bicicli, Firmani, Angelillo; Corso, Rizzolino. – All. Campatelli.
JUVENTUS: Mattrel, Castano, Sarti; Emoli, Cervato, Colombo; Boniperti, Nicolè, Charles; Sivori, Stivanello. – All. Cesarini.
CRONACA: Conta pur qualcosa, credete, anche la maniera di porgere, di presentare! Uno potrà mangiare altrettanto bene in una trattoria periferica oppure al Savini; in trattoria spenderà meno, ma nel locale di lusso, ad addolcirgli la pillola del conto, avrà anche il ricordo gradevole di un cameriere in guanti bianchi, delle posate d’argento, delle poltrone di velluto, dell’aria condizionata. La Lega Nazionale, per questa finale di Coppa, ha allestito un tal preludio coreografico da produzione De Laurentiis, in technicolor, con regia di Luchino il Grande. Sentite un po’. Quasi novantamila sugli spalti; una tovaglia tricolore per un semplice tavolino, al centro del tappeto d’erba; sul tavolino l’enorme coppa d’argento. Di qui il gagliardetto dell’Inter, di là quello della Juve. La banda musicale. L’entrata in campo stile “brasilero”: enormi drappi bianconeri e nerazzurri portati a mano, di corsa, dai rispettivi giocatori delle due squadre. Il giro attorno al campo in crepitio assordante di battimani. L’inno di Mameli. I dirigenti Rapizzi e Giordanetti che accompagnano sul terreno il presidente della Lega Nazionale dott. Pasquale; il quale – alla maniera di Filippo di Edimburgo – stringe la mano a tutti i giocatori e all’arbitro. I due capitano Boniperti ed Angelillo che si scambiano l’augurale “hip hip hurrà”. Una coreografia di lusso, il calcio è spettacolo – che diamine! – ed i tradizionalisti si scandalizzino pure, affermando sottovoce che tra poco vedremo in campo pure le “blue-bells”. Alla gente, che volete, piace. Il “via” alle 16,30 esatte, con cronometrica, elvetica, precisione. Fasi d’assaggio, prima Nicolè e poi Firmani in zona di tiro: entrambi dimostrano che devono ancora aggiustare la mira. Al 4’ Corso che duetta con Firmani, il quale ultimo fa partire Angelillo; secco il tiro, salva Mattrel con pronto intuito. Dopo che Sivori con un pallonetto a candela finito sopra la traversa ha fatto trattenere il fiato ai palafini nerazzurri, la Juventus passa. E’ il 7’ e la faccenda va così: punizione contro l’Inter (fallo di Cardarelli su Sivori); la batte Boniperti servendo Emoli, scattato in avanti sul settore dell’estrema destra. Il laterale bianconero crossa verso il centro, dove due nerazzurri, che hanno Charles alle spalle, tentano l’interdizione (invano): e la testa di John si erge allora implacabile giustiziera. Matteucci resta allibito. I tifosi dell’Inter anche. I nerazzurri accusano il colpo, e lo choc dello svantaggio se lo trascinano per cinque minuti buoni. In questi cinque minuti un tiro di Colombo finisce alto ed un magistrale assolo di Sivori offre a Nicolè la palla buona (conclusione errata, comunque). La prima risposta dell’Inter da modo a Sarti di prodursi in un paio di interventi di classe. Al 16’ Bicicli se ne va come un furetto e poi tocca ad Angelillo, in posizione favorevolissima: e quello, il “capitano”, se ne esce con una “padella” da indispettire. Corso in cattedra al 19’: tre avversari son lasciati a bocca aperta dalle sue finte, indi il tocco illuminante a Rizzolini per il tiro; un tiraccio, alto. […] Seconda rete al 27’: Sivori circus a tre quarti di campo, sin che l’inciucchito Bolchi, al colmo dell’esasperazione, allorché l’avversario si approssima al limite dell’area, lo stende secco. Batte Cervato la punizione, mentre Charles è subito retrocesso a mediocentro. Un proietto, Matteucci manco fa in tempo ad accorgersene che la sfera è in fondo al sacco… La Juventus, adesso, è padrona del campo. Manovra John-Boniperti-Nicolè: Matteucci è tagliato fuori, salva Cardarelli sulla linea. […] Gol dell’Inter. E’ il 36’, Bolchi porge ad Angelillo, che supera in dribbling un avversario e poi fa filtrare la sfera nel corridoio in cui s’è incuneato prontamente Bicicli: scatto e coordinazione perfetti del biondino, ed una puntata fatale che manda la palla a scuotere il fondo della rete. E’ il momento più bello dei nerazzutti. Fantastica azione al 39’: Angelillo si scrolla di dosso un paio di avversari ed apre su Bicicli, cross verso Firmani, che al volo tenta la via della rete con una mezza girata: il balzo stupendo Mattrel strozza il grido d’entusiasmo nella gola dei paladini nerazzurri… […] Di colore nerazzurro anche l’avvio della ripresa, dopo un fiacco tiro di Nicolè fuori bersaglio. Due volte Angelillo tenta la conclusione di forza, ma la sorte si fa beffe di lui. Battimani di incoraggiamento. Firmani impettito al 2’: corre (si fa per dire) a testa alta, supera anche Mattrel, ma poi – diagonalmente – scarica addosso a Sarti (corner). Angoli in serie per l’Inter. Ed una sequela di tiri così fiacchi da muovere al dispetto i tifosi: tre volte Masiero, poi Rizzolini, infine Bicicli. Fatale dunque che sia la Juve a passare ancora. Avviene al 18’, Stivanello da a Sivori e quello improvvisa il suo numero d’alta fantasia: Masiero e Guarneri sono impietriti dai dribblings e la fucilata rasoterra che parte del piede del bianconero manda la sfera diagonalmente in fondo alla porta. Un gol spettacoloso!
Calcio a due in area (per l’Inter) al 19’: Rizzolini tocca indietro ad Angelillo, che sventaglia a rete; intercetta Colombo e l’occasione sfuma. Fallo da rigore di Cervato su Firmani al 22’, Jonni sorvola con estrema disinvoltura. Charles spaccatutto al 25’: lanciato da Stivanello fa il vuoto a sé, d’attorno, ma poi tira maldestramente (e Boniperti, libero, questuava invano la palla…)
Sbaglia la mira Corso al 26’, lo imitano Nicolè (32’) e Firmani (33’). Il rigore al 34’: Sivori, a coronamento di una irresistibile azione bianconera, arriva solo soletto davanti a Da Pozzo: e quello, perso per perso, “placca” l’argentino alla maniera dei rugbisti. Disco bianco: traduce Cervato (goleador della giornata, se vogliamo) con pregevole finta. La partita, ormai, ha detto tutto. I bianconeri snobbano un poco, giostrando in punta di bulloni. La gente comincia a sfollare. L’epilogo che vi sarà facile immaginare, con fischi e battimani a confondersi. La consegna della Coppa a “capitan” Boniperti da parte del dottor Pasquale. La Juventus ci berrà su, in serata, al ternine del cenone. Cin cin. – da La Gazzetta dello Sport del 14.09.1959

1959-1960
Dopo un anno di pausa, la Juventus ritornò allo scudetto; accumulando vantaggio partita dopo partita la squadra bianconera superò tutte le avversarie grazie ad un attacco che segnò 92 gol in 34 partite e portò Omar Sívori (28 reti) e John Charles (23) rispettivamente al primo e terzo posto della classifica cannonieri. Il campionato iniziò il 20 settembre 1959. La Juventus partì bene; al primo pareggio, arrivato alla quarta giornata contro l'Atalanta, replicò con un 7-0 all'Alessandria la settimana dopo. Con una marcia regolare evitò il recupero del Bologna, che dopo aver battuto i bianconeri perse tre gare di fila, e passò indenne gli ultimi mesi dell'anno: il primo posto alla fine del girone d'andata, il 24 gennaio 1960, fu assicurato. I punti di vantaggio sul Milan, secondo, erano quattro. Durante il ritorno la Vecchia Signora non mostrò segni di cedimento, mentre alle sue spalle si fece strada la Fiorentina, arrivata a due soli punti di distacco dalla capolista vincendo lo scontro diretto del 27 marzo a Firenze; tuttavia, la Fiorentina incappò poi in tre pareggi di fila, con una vittoria e una sconfitta contro la Sampdoria. Proprio quest'ultima, il 15 maggio, permise ai bianconeri di andare a più otto, consegnando loro di fatto l'undicesimo titolo. La Fiorentina fu seconda in classifica per il quarto anno consecutivo. Il numero delle squadre retrocesse salì a tre. Il Genoa rimase all'ultimo posto sul campo e fu successivamente condannato per un tentativo di illecito ai danni della neopromossa Atalanta: la penalizzazione cancellò di fatto tutti i punti conquistati durante il campionato dai liguri. Retrocessero in Serie B assieme ai Grifoni anche l'Alessandria, che lasciò in eredità al Milan un giovanissimo Gianni Rivera, e il Palermo, in A da un solo anno.

La Coppa Italia 1959-1960 è stata la tredicesima edizione del secondo torneo calcistico italiano. Esclusa d'autorità la partecipazione delle squadre di Serie C, la manifestazione iniziava con due turni eliminatori da cui venivano esentate totalmente le società giunte ai quarti di finale della precedente edizione, e parzialmente il Milan (per impegni internazionali) e l'Atalanta (per sorteggio). Il tabellone principale, come l'anno precedente, iniziava dagli ottavi di finale, e vide ancora la vittoria della Juventus, ancora a San Siro. Fu il quarto successo per i bianconeri i quali, aggiudicandosi anche lo Scudetto, compirono il secondo double della storia del calcio italiano dopo quello del Torino nel 1943. Per la Fiorentina, sconfitta con il punteggio di 3-2 dopo i tempi supplementari, ci fu la consolazione della partecipazione ad una nuova coppa europea, creata dagli organizzatori della Mitropa, e riservata ai vincitori delle coppe nazionali, ma a cui la Juventus non poteva prender parte in quanto già impegnata in Coppa dei Campioni.


Pos.
Squadra
Pt
G
V
N
P
GF
GS
1.
Juventus
55
34
25
5
4
92
33
2.
Fiorentina
47
34
20
7
7
68
31
3.
Milan
44
34
17
10
7
56
37
4.
Inter
40
34
14
12
8
55
43
5.
Bologna
36
34
14
8
12
50
42
6.
Padova
36
34
14
8
12
50
46
7.
SPAL
36
34
12
12
10
45
50
8.
Sampdoria
35
34
11
13
10
41
46
9.
Roma
34
34
13
8
13
53
53
10.
L.R. Vicenza
32
34
11
10
13
39
42
11.
Atalanta
31
34
9
13
12
31
39
12.
Lazio
30
34
9
12
13
32
45
13.
Bari
29
34
9
11
14
32
42
14.
Napoli
29
34
8
13
13
33
48
15.
Udinese
28
34
6
16
12
39
54
16.
Palermo
27
34
6
15
13
27
40
17.
Alessandria
25
34
5
15
14
28
51
18.
Genoa
0
34
4
10
20
21
50


                                                    Coppa Italia 1959/60


Ottavi di Finale

04/11/1959
Juventus - Sampdoria
5 - 4

Quarti di Finale

06/04/1960
Atalanta - Juventus
2 - 2

Semifinali

18/06/1960
Juventus - Lazio
3 - 0


Finale

18/09/1960
Juventus - Fiorentina
3 - 2



Data
Incontro
Ris
20/09/1959
Juventus - LR Vicenza
4 - 1
27/09/1959
Padova - Juventus
0 - 4
04/10/1959
Juventus - Spal
3 - 1
11/10/1959
Atalanta - Juventus
2 - 2
18/10/1959
Juventus - Alessandria
7 - 0
25/10/1959
Lazio - Juventus
0 - 2
08/11/1959
Juventus - Fiorentina
3 - 1
15/11/1959
Bologna - Juventus
3 - 2
22/11/1959
Juventus - Genoa
2 - 0
06/12/1959
Napoli - Juventus
2 - 1
13/12/1959
Juventus - Inter
1 - 0
20/12/1959
Udinese - Juventus
1 - 1
27/12/1959
Juventus - Roma
4 - 0
10/01/1960
Milan - Juventus
0 - 2
17/01/1960
Juventus - Bari
2 - 0
24/01/1960
Sampdoria - Juventus
0 - 2
31/01/1960
Juventus - Palermo
2 - 1
07/02/1960
LR Vicenza - Juventus
1 - 2
21/02/1960
Spal - Juventus
3 - 6
24/02/1960
Juventus - Padova
5 - 1
28/02/1960
Juventus - Atalanta
0 - 1
06/03/1960
Alessandria - Juventus
0 - 2
20/03/1960
Juventus - Lazio
2 - 0
27/03/1960
Fiorentina - Juventus
1 - 0
03/04/1960
Juventus - Bologna
3 - 0
10/04/1960
Genoa - Juventus
2 - 6
17/04/1960
Juventus - Napoli
4 - 2
24/04/1960
Inter - Juventus
0 - 3
01/05/1960
Juventus - Udinese
4 - 3
08/05/1960
Roma - Juventus
2 - 2
15/05/1960
Juventus - Milan
3 - 1
22/05/1960
Bari - Juventus
1 - 3
29/05/1960
Juventus - Sampdoria
2 - 2
05/06/1960
Palermo - Juventus
1 - 1


Coppa dell'Amicizia Italo-Francese 1960

12/06/1960
Stade de Reims (FRA) - Juventus
4 - 4

26/06/1960
Juventus - Stade de Reims (FRA)
2 - 1



La conquista della terza Coppa Italia, sembra ridare vita alla Juventus che torna protagonista anche in campionato: guidati in panchina da Cesarini e in campo dagli irrefrenabili Sivori e Charles, i bianconeri conquistano l’undicesimo scudetto staccando di ben 11 punti i campioni in carica del Milan e di 8 la Fiorentina (che continua a collezionare secondi posti), e la quarta Coppa Italia. L’undici di Cesarini è una squadra più equilibrata rispetto al passato, soprattutto grazie all’inserimento tra i titolati del difensore Cervato, protagonista proprio con la Fiorentina quattro anno prima, che riesce a dare un prezioso contributo sia in fase di difesa che di realizzazione (saranno 6 i gol da lui realizzati in campionato). In avanti, come detto, si torna a segnare molto, 92 gol, di cui 28 siglati da Sivori e 23 da Charles.


JUVENTUS – MILAN 3-1 (0-0)
Torino, Stadio Comunale, 15.05.1960 - 31ª Giornata
RETI: 55’ Sivori (J); 56’ Altafini (M); 74’ Sivori (J); 81’ Boniperti (J)
JUVENTUS: Vavassori, Garzena, Sarti; Emoli, Cervato, Colombo U.; Nicolè, Boniperti, Charles; Sivori, Stacchini. – All. Parola.
MILAN: Alfieri, Fontana, Zagatti; Liedholm, Maldini, Occhetta; Bean, Schiaffino, Altafini; Grillo, Danova. – All. Bonizzoni.
ARBITRO: Rigato di Mestre
CRONACA: Negli spogliatoi bianconeri Cesarini è calmo e tranquillo come sempre, e a chi gli fa i complimenti per la nuova vittoria, dice: - Mi pare che sia la più logica conclusione. E tanto vale commentare con una frase fatta: mi pare che abbia vinto il migliore. E non ho altro da aggiungere. –  A sua volta Boniperti aggiunge: - La nostra intenzione era quella di chiudere in bellezza, e mi pare che ci siamo riusciti. Anche i nostri avversari, pur accennando qualche riserva, ci hanno dichiarato che il risultato è giusto. – E’ poi la volta di Colombo, che dichiara: - La partita è stata abbastanza combattuta in alcuni suoi periodi. La rete che abbiamo incassato si sarebbe anche potuta evitare, se avessimo mantenuto una più attenta sorveglianza a centro campo. – Lo stesso afferma Cervato: - Dopo la nostra prima segnatura, ci siamo lasciati sorprendere da un attimo di disattenzione, che ci è stata fatale. Però tutto è stato rimesso a posto, in seguito, dai nostri bravi attaccanti. – Sivori conferma di non avere mai temuto per il risultato: - Il Milan si è prodigato e ha saputo fornire anche un ottimo gioco, però noi avremmo potuto mettere al sicuro il risultato anche nel primo tempo, proprio nel periodo in cui abbiamo mancato, subito dopo l’inizio, alcune segnature che potevano essere realizzate. –
I rossoneri non sembrano per nulla disperati della sconfitta, consci comunque di aver fatto di tutto per evitarla. Viani, interpellato per primo, afferma: - Niente da dire sul risultato parziale e su quello totale del campionato. A questo punto del torneo, quasi tutti gli juventini risultano in buona forma, segno evidente che sono veramente forti e anche i migliori di questo campionato. – Il portiere Alfieri spiega come sia difficile intervenire sui palloni che Sivori manda verso la rete: - Sono sempre molto insidiosi e non si sa mai bene come gettarsi per poterli fermare. – Liedholm, da perfetto sportivo, dice: - Abbiamo avuto rari momenti in cui ci sarebbe stato anche possibile imporci; gli attaccanti della Juventus riescono sempre a trovare lo spiraglio per passare attraverso le difese più attente e più strette, specialmente Sivori. – Non diverse affermazioni sono espresse da Grillo, Altafini e Schiaffino, e in qualcuna di esse si indovina anche un certo senso di blando rispetto. Maldini tesse l’elogio di Charles: - E’ sempre un avversario quanto mai corretto, ma pericoloso, senz’altro il centravanti più bravo e più difficile che abbia mai incontrato. – Fontana e Zagatti, quasi all’unisono, spiegano: - Abbiamo cercato di fare del nostro meglio per impedire ai bianconeri di vincere, ma non ci siamo riusciti. Però abbiamo l’animo tranquillo di avere fatto tutto il possibile. – da La Gazzetta dello Sport del 16.05.1960
CLASSIFICA: Juventus p. 51; Fiorentina p. 43; Milan p. 40; Internazionale, Padova p. 35; Spal, Sampdoria p. 33; Bologna p. 32; Roma p. 31; Atalanta, L.R. Vicenza p. 29; Bari p. 27; Udinese p. 26; Lazio, Napoli p. 25; Alessandria p. 24; Palermo p. 23; Genoa p. 17


1474. JUVENTUS – FIORENTINA 3-2 dts (1-1)
Milano (Campo Neutro), Stadio San Siro, 18.09.1960 - Coppa Italia – Finale
RETI: 10’ Charles (J); 45’ Montuori (F); 60’ Da Costa (F); 73’ Charles (J); 97’ Micheli aut. (J)
JUVENTUS: Vavassori, Burelli, Sarti; Emoli, Cervato, Colombo U.; Nicolè, Boniperti, Charles; Sivori, Stacchini. – All. Parola.
FIORENTINA: Sarti, Robotti, Castelletti; Micheli, Orzan, Marchesi; Hamrin, Montuori, Da Costa; Milan, Petris. – All. Carniglia.
ARBITRO: Righi di Milano
CRONACA: Da oggi e per molti giorni (vi sarà certamente un caso Sivori) si parlerà molto del signor Righi, il noto arbitro milanese, il quale per non aver concesso un rigore e per averne concesso successivamente un altro per ritornare poi sulla sua decisione al termine di un rapido conciliabolo con un segnalinee, ha consentito che ventidue atleti trasformassero una partita importante come la finale di Coppa Italia in qualcosa che soltanto sul finire ha dimostrato una sicura parentela con il football. E che se ne parli è anche giusto perché in effetti il signor Righi ha commesso un grave errore che via via è andato ingigantendo sino a compromettere definitivamente la sua prestazione. Purtroppo come un giocatore può a volta incappare in una giornata grigia e frustrare tutti gli sforzi dei suoi compagni, anche un arbitro può sbagliare una direzione, con conseguenze però ben più profonde. Sinceramente la Juve non meritava che due sue azioni impeccabili fossero stroncate con falli, al tempo stesso,  scorretti e plateali, senza che all’avversario toccasse una giusta punizione. Naturalmente chi vi ha rimesso sono stati proprio i giocatori, i quali, non potendo sfogarsi come avrebbero voluto, hanno incominciato a scaricarsi l’uno l’altro addosso l’ira che avevano in corpo e se non è accaduto il peggio lo si deve al senso di responsabilità degli elementi più in vista che sono riusciti, con il passare dei minuti, a riportare gli animi ad uno stato di relativa serenità per poter continuare il gioco. E’ accaduto che la mancata concessione di un rigore, la successiva segnatura della Fiorentina, l’inevitabile espulsione di Sivori abbiano indirizzato la partita su binari assolutamente irregolari, privi ormai di un indirizzo tecnico e con una squadra numericamente in difficoltà. A questo punto, quasi per un suggerimento paradossale, la Juve ha cominciato a vincere la partita: i suoi elementi migliori – Charles su tutti, poi Boniperti, Cervato ed i due ammirevoli laterali – hanno dato alla loro prestazione un volto nuovo, in chiave grintosa, spregiudicata, aggressiva. E poi ancora hanno aggiunto la loro perfetta organizzazione, l’esperienza nel trattenere la palla per giocarla soltanto a ragion veduta ed un impegno che ha toccato i limiti del pensabile. C’era una logica superlativa nella Juve dei dieci uomini, che si rifaceva al modulo attuato sino a quando Sivori era stato in campo: squadra ben stretta sul centrocampo a tutelare il portentoso Cervato, anche le ali al limite della propria area per essere subito pronte al rilancio e soltanto Charles e Sivori in avanti per le conclusioni. Uscito l’argentino, la Juve non ha per nulla modificato il suo atteggiamento, ha continuato a produrre il gioco nel triangolo creato da Boniperti e dai laterali, con la collaborazione saltuaria di una delle due ali ed ha sostituito Sivori esclusivamente ordinando a tutti di correre un po’ di più.
Qui la Fiorentina ha perduto la partita perché, come prima non aveva saputo trovare la chiave di volta esatta per marcare le due punte bianconere, contro il solo gallese non ha capito più nulla. Mai uno dinanzi a Charles ed uno alle spalle per attenderlo, ma soltanto Orzan, in quale nell’incessante svariare dell’avversario, mai trovava sulla strada un compagno capace di aiutarlo. D’accordo che John è stato stupendo, ma i viola nulla hanno saputo (o potuto, se si vuole) attuare per controllarlo con maggior efficacia. Non diciamo energia, perché di energia ne hanno messo molta per fermare il gallese travolgendolo, a volte, con falli paurosi. In svantaggio di una rete e con Sivori negli spogliatoi, in pochi avrebbero ancora puntato sulla Juventus ed invece è stato a questo punto che si è vista la grande squadra, di alto stile, dal carattere intatto: la formazione, espressione reale di una cooperazione nata dall’incontro di undici uomini tecnicamente e moralmente preparati agli scontri più duri: quelli che dovrà affrontare la squadra Campione d’Italia che tutti vorrebbero battere nel corso del campionato. La Juve non è mutata granchè dall’anno scorso: c’è Burelli terzino destro, perché Castano non si rimette dal malanno e perché Burgnich è ancora giovane. Cervato ed Emoli, al centro, ordinano la disposizione preferita dall’intera squadra allorché in fase difensiva. Colombo e Boniperti, più avanti, cercano l’impostazione adatta con le ali al fianco e non lasciate scioccamente in avanti  a far coppia coi terzini avversari. Charles è l’uomo che può vincere da solo una partita, che sa esaltare i compagni, mentre Sivori, ieri, ha confermato di non essere sulla via di una condizione accettabile. […] – da La Gazzetta dello Sport del 19.09.1960

1960-1961
La Juventus del neo-allenatore Gunnar Gren mantenne sulla maglia lo scudetto, ma la corsa per riuscirci si rivelò ardua; solo il girone di ritorno permise alla Vecchia Signora di arrivare prima. Non riuscì a vincere il titolo l'Inter, guidata dall'ex-allenatore del Barcellona Helenio Herrera, alla sua prima stagione a Milano. Il campionato iniziò il 25 settembre 1960. I nerazzurri partirono bene, segnando 18 gol nelle prime quattro giornate. Il 23 ottobre si ritrovarono soli in testa, inseguiti da Juve e Roma. Quando la squadra nerazzurra perse a Padova, però, furono i capitolini a tentare la prima fuga: l'Inter li recuperò in testa a Natale. Intanto la Juventus stava accusando una flessione; il 1º gennaio 1961 scese al sesto posto, superata anche dal Milan, dal Bologna e dalla matricola Catania. La Roma calò il ritmo e l'Inter riuscì a prendere piede: il 29 gennaio si laureò Campione d'inverno a 26 punti con un vantaggio di tre punti sul Milan e 4 sul Catania, rivelazione della prima parte torneo, che alla prima giornata di ritorno raggiunse il secondo posto in classifica. I bianconeri iniziarono bene il girone di ritorno, vincendo 5 partite di fila e avvicinando l'Inter. Il 12 marzo la Juventus perse contro il Milan, ma l'Inter non seppe approfittarne e fu sconfitta dalla matricola Lecco. Fu la prima di quattro sconfitte consecutive: i nerazzurri vennero battuti anche a domicilio dal Padova, per poi cadere nel derby e infine impattare contro la vivace Sampdoria del capocannoniere Brighenti (27 gol). La Juve balzò in testa e il Milan occupò il secondo posto. Il 16 aprile si giocò Juventus-Inter: a Torino, la partita venne sospesa per un'invasione di campo da parte di tifosi entrati all'interno dello stadio senza biglietto. I nerazzurri ottennero in primo grado lo 0-2 a tavolino. La Juventus però fece ricorso e poi, il 3 giugno, vigilia dell'ultima giornata di campionato con l'Inter a pari punti con la Juventus (46 a testa), la CAF accolse il ricorso della società torinese e ordinò la ripetizione della gara[1]. Ci furono molte polemiche riguardo a quella decisione, per via del doppio ruolo che ricopriva a quel tempo Umberto Agnelli, presidente sia della FIGC che della Juventus. A quel punto tra le due squadre si creò una distanza di due punti, ma pareggiando 1-1 in casa contro il Bari la Juventus divenne Campione d'Italia. Per raggiungerla l'Inter avrebbe dovuto vincere a Catania, sperando in una sconfitta dei bianconeri, ma i nerazzurri vennero battuti 2-0 a Catania, (partita che originò l'espressione clamoroso al Cibali). Il 10 giugno, in occasione del recupero di Juventus-Inter dopo la conclusione del campionato, per protesta, il presidente nerazzurro Angelo Moratti ordinò a Herrera di schierare la squadra primavera, accusando la CAF di aver subito l'ingerenza del presidente federale. La partita finì 9-1 per la Juventus, con un Omar Sívori futuro Pallone d'Oro che realizzò 6 gol; per i milanesi segnò su rigore il diciottenne Sandro Mazzola, figlio di Valentino e futura bandiera nerazzurra. L'Inter chiuse il campionato al terzo posto con 44 punti, dietro anche al Milan. La Lazio finì in Serie B per la prima volta dall'introduzione del Girone unico; con i capitolini, il Napoli, che perse le ultime quattro partite e si lasciò così sfuggire Udinese, Lecco e Bari. Proprio queste tre squadre furono costrette a lottare per evitare l'ultima retrocessione. Alla fine scesero in B i pugliesi, sconfitti negli spareggi e già penalizzati per il campionato successivo di 6 punti a causa di un tentativo d'illecito nella gara contro la Lazio. Questa fu la prima stagione con l'assegnazione dell'attuale trofeo del campionato di Serie A, la Coppa Campioni d'Italia.

[1] : La partita del 16 aprile 1961 fu sospesa al 31', sul risultato di 0-0, a causa del sovraffollamento sugli spalti, dovuto allo sfondamento dei cancelli da parte di alcuni tifosi interisti senza biglietto, che causò l'invasione della pista d'atletica di alcuni spettatori, che si sedettero sulla stessa per guardare la partita. Nonostante essi non tentassero di entrare nel terreno di gioco, la gara fu fermata e la Corte di Giustizia Federale assegnò all'Internazionale la vittoria per 2-0 a tavolino. La Juventus fece successivamente ricorso e la Corte d'Appello Federale decretò la nuova disputa della gara. I bianconeri alla fine vinsero il campionato con 49 punti, quattro sopra il Milan e cinque in più dell'Internazionale.

Testo seguente tratto da da ju29ro.com, si ringrazia Nicola Negro
"(...) C’è una data di inizio per queste lamentele, ma per trovarla bisogna fare un salto indietro di mezzo secolo. E‘ il 16 aprile 1961 quando Juventus e Inter si incontrano al Comunale. Lo stadio straripa, è tutto esaurito con 68.000 spettatori sommando i biglietti venduti e la quota abbonati. Ma fuori c‘è ancora ressa, una folla vuole entrare ed assistere a una partita che potrebbe portare la Juventus a +6 dagli avversari e chiudere virtualmente il campionato a poche giornate dalla fine, oppure riaprirlo, con una vittoria degli ospiti, che si porterebbero a -2 dalla Juventus del trio magico Boniperti, Charles e Sivori. Fatto sta che quattro ingressi cedono e qualche migliaio di tifosi entra nello stadio, sistemandosi ai bordi del campo per assistere all’incontro. La partita inizia regolarmente, si gioca con i tifosi a bordo campo come non di rado accadeva in quegli anni. Dopo mezz’ora però, con il risultato sullo 0-0, l’Inter chiede l’interruzione dell’incontro già sicura di ottenere quella vittoria a tavolino che la commissione giudicante le assegnerà nei giorni successivi. La Juventus del presidente Umberto Agnelli non ci sta e un giovane avvocato, Vittorio Caissotti di Chiusano, istruisce il reclamo dimostrando che l’invasione è stata pacifica e che la Juventus non ha la responsabilità oggettiva per quanto accaduto in quanto non aveva venduto più biglietti di quelli consentiti. La Commissione d’Appello fa quindi dietrofront: si deve rigiocare. Un verdetto che viene reso noto proprio all’immediata vigilia dell’ultima giornata. L’Inter così va a -2 dalla Juventus che ospita il Bari, mentre i nerazzurri giocano a Catania. Si aspettano tutti un turno interlocutorio con la partita da recuperare fissata per il 10 giugno, ma “clamoroso al Cibali!”, l’Inter perde 2-0 e alla Juventus basta un pareggino contro il Bari per aggiudicarsi matematicamente lo scudetto. A niente servirà all’Inter del mago Helenio Herrera schierare provocatoriamente la squadra “De Martino” (la Primavera di allora) se non a dare il via a polemiche e piagnistei da parte di chi, evidentemente, già a quel tempo voleva vincere a tavolino. (...)"
Tratto da
ju29ro.com



Pos.
Squadra
Pt
G
V
N
P
GF
GS
DR
1.
Juventus
49
34
22
5
7
80
42
+38
2.
Milan
45
34
18
9
7
65
39
+26
3.
Inter
44
34
18
8
8
73
39
+34
4.
Sampdoria
41
34
17
7
10
54
51
+3
5.
Roma
39
34
16
7
11
58
46
+12
6.
Padova
38
34
16
6
12
47
40
+7
7.
Fiorentina
37
34
13
11
10
46
34
+12
8.
Catania
36
34
15
6
13
45
44
+1
9.
Bologna
31
34
10
11
13
44
51
-7
9.
Atalanta
31
34
9
13
12
35
41
-6
9.
L.R. Vicenza
31
34
10
11
13
35
46
-11
12.
Torino
30
34
9
12
13
34
41
-7
12.
SPAL
30
34
10
10
14
39
50
-11
14.
Lecco
29
34
10
9
15
33
49
-16
15.
Udinese
29
34
9
11
14
39
53
-14
16.
Bari
29
34
9
11
14
27
38
-11
17.
Napoli
25
34
7
11
16
30
47
-17
18.
Lazio
18
34
5
8
21
30
63
-33



                                                    Coppa Italia 1960/61


Ottavi di Finale

25/01/1961
Sambenedettese - Juventus
1 - 4


Quarti di Finale

03/05/1961
Sampdoria - Juventus
0 - 2


Semifinali

10/05/1961
Fiorentina - Juventus
3 - 1


Finale 3° Posto

29/06/1961
Juventus - Torino
2 - 2


Vince la Juventus ai calci di rigore.



Data
Incontro
Ris
25/09/1960
Udinese - Juventus
0 - 1
02/10/1960
Juventus - Lazio
3 - 1
09/10/1960
Spal - Juventus
1 - 2
16/10/1960
Juventus - Catania
4 - 1
23/10/1960
Fiorentina - Juventus
3 - 0
06/11/1960
Juventus - Milan
3 - 4
13/11/1960
Torino - Juventus
0 - 0
20/11/1960
Juventus - Bologna
3 - 0
27/11/1960
Roma - Juventus
2 - 1
04/12/1960
Juventus - LR Vicenza
2 - 0
18/12/1960
Inter - Juventus
3 - 1
25/12/1960
Juventus - Sampdoria
3 - 2
01/01/1961
Lecco - Juventus
2 - 2
08/01/1961
Atalanta - Juventus
2 - 2
16/01/1961
Juventus - Napoli
2 - 2
22/01/1961
Juventus - Padova
2 - 1
29/01/1961
Bari - Juventus
0 - 1
05/02/1961
Juventus - Udinese
5 - 1
12/02/1961
Lazio - Juventus
1 - 4
19/02/1961
Juventus - Spal
1 - 0
26/02/1961
Catania - Juventus
1 - 2
05/03/1961
Juventus - Fiorentina
3 - 0
12/03/1961
Milan - Juventus
3 - 1
19/03/1961
Juventus - Torino
1 - 0
26/03/1961
Bologna - Juventus
2 - 4
02/04/1961
Juventus - Roma
3 - 0
09/04/1961
LR Vicenza - Juventus
0 - 1
30/04/1961
Sampdoria - Juventus
3 - 2
07/05/1961
Juventus - Lecco
4 - 2
14/05/1961
Juventus - Atalanta
3 - 2
21/05/1961
Napoli - Juventus
0 - 4
30/05/1961
Padova - Juventus
1 - 0
05/06/1961
Juventus - Bari
1 - 1
10/06/1961
Juventus - Inter
9 - 1


                                                                                                  Coppa dei Campioni

Sedicesimi di Finale

21/09/1960
Juventus - CDNA Sofia (BUL)
2 - 0

12/10/1960
CDNA Sofia (BUL) - Juventus
4 - 1



Nella lunga storia della Juventus, lo scudetto numero 12, conquistato appena un anno dopo il ritorno al successo in Italia, porta con sé uno dei campionato tra i più anomali che si siano disputati. Nella stagione 1960-61 succede, infatti di tutto, sia ai bianconeri che si laurereanno campioni, sia all’andamento del campionato. Si comincia con la Juve che inanella quattro successi consecutivi, ma viene anche eliminata dalla Coppa Campioni. La panchina è turbolenta così Cesarini viene allontanato per far posto a Parola che sarà affiancato dall’ex milanista Gren nei panni di Direttore Tecnico. Sotto la guida del duo, la Juve infila nove partite utili. Il duello al vertice con l’Inter di Buffon, Picchi e Corso è al cardiopalma e così alla fine del girone di andata, i nerazzurri hanno 26 punti, seguito dal Milan a 23 e da Juve e Roma con 22. I bianconeri sembrano già fuori dalla corsa per lo scudetto, ma nel girone di ritorno la squadra sembra scrollarsi di dosso tutte le incertezze e fa registrare sette successi consecutive che li porta, in concomitanza alla vittoria a Bologna contro i felsinei del cannoniere Vinicio, in vetta alla classifica. La grande rincorsa è andata a buon fine, anche grazie a quattro sconfitte consecutive dell’Inter, anche se il Milan è sempre lì, a soli due punti. La Juve resiste al primo posto anche dopo l’inaspettata battuta d’arresto a Genova con la Sampdoria, ma Gren viene comunque allontanato dopo cento giorni e sostituito ancora una volta da Carletto Parola che torna sulla panchina bianconera, alla vigilia della partita che farà la storia del campionato: Juventus–Inter alla ventottesima giornata, con i bianconeri a 40 punti e i nerazzurri staccati a 36. L’attesa è spasmodica, i tifosi arrivano da tutta Italia e molti rimangono senza biglietto, ma ciò non impedisce a circa 10.000 persone di entrare ugualmente allo stadio riempendo la pista d’atletica e perfino le due panchine! Per mezz’ora si gioca tranquillamente, fino a quando, senza apparente motivo, gli interisti attirano l’attenzione dell’arbitro Gambarotta su quanto sta succedendo ai bordi del campo, chiedendo la sospensione della partita, nella speranza del 2-0 a tavolino. Il piano di Corso e compagnio va a buon fine, ma poco dopo la CAF annulla la sentenza su reclamo della Juventus e chiede la ripetizione della partita, provocando la protesta dell’Inter che decise di schierare la formazione primavera andando così incontro a una sconfitta per 9-1(tra quei giovanotti fece il suo esordio in Serie A segnando il gol della bandiera, Sandro Mazzola). Sivori segnò sei reti diventando il capocannoniere del campionato, ma signorilmente Umberto Agnelli mandò il premio del goleador (1 milione di lire) anche al sampdoriano Brighenti, superato in extremis dal bianconero. Uno degli uomini decisivi fu senz’altro il giovane attaccante Bruno Nicolè: Nella irresistibile Juventus che vince il suo 12° Scudetto con un attacco da sogno (80 gol in campionato) si mette in luce questa giovane punta. In grado di coprire qualsiasi ruolo nel settore offensivo bianconero è, a seconda delle esigenze, centravanti, con Boniperti e Sivori accanto, o ala, con Charles ariete al centro. Si propone come “l’uomo nuovo” del calcio italiano. Validissimo tecnicamente, è soprattutto uno dei finalizzatori  della manovra di una squadra dove le occasioni da gol arrivano copiose; agile e sciolto nella corsa, è dotato di ottimi riflessi in area di rigore. Sul piano dell’agonismo puro denota, invece, una certa timidezza,. Presente 29 volte, si mette in luce come cannoniere con 13 gol.

LAZIO - JUVENTUS 1-4 (0-2)
Roma, Stadio Olimpico, 12.02.1961 - 19ª Giornata
RETI: 8’ Sivori (J); 31’ Charles (J), 61’ Rozzoni (L); 85’ Charles (J); 89’ Mora (J)
LAZIO: Lovati, Molino, Eufemi; Carradori, Janich, Carosi; Mariani, Franzini, Rozzoni; Morrone, Bizzarri. – All. Carver.
JUVENTUS: Vavassori, Cervato, Sarti; Emoli, Castano, Colombo U.; Mora, Charles, Nicolè; Sivori, Stacchini. – All. Parola – D. T. Gren
CRONACA: Se la Juventus fosse stata in grado di continuare sul tipo di gioco offerto nel primo tempo si sarebbe registrato un punteggio tennistico. Per oltre quaranta minuti i campioni hanno prodotto un football di rara realizzazione, che raggiungeva livelli incredibili nella fase sotto la rete laziale e che peccava soltanto di precisione nel tiro a rete (e che consentiva a Lovati di dimostrarsi il migliore oppositore). In questo periodo si avevano soltanto due gol ed un rigore (naturalmente) sbagliato, ma in sette occasioni i bianconeri hanno posto un uomo solo davanti al portiere, annullando completamente la Lazio e consentendo a Vavassori di rimanere pressoché inoperoso. Mancata, con il rigore sbagliato da Mora, la possibilità di giungere al 3-0, quindi ad uno stato di completa tranquillità,  la Juve si è ripresentata in campo, dopo il riposo, senza il mordente della prima parte dell’incontro, con un attacco completamente frantumato e privo di quella lucidità che aveva strappato gli applausi anche ai tifosi più accesi. Ne approfittava logicamente la Lazio che premeva più per la rinuncia juventina che per propria capacità; ed il gol di Rozzoni trovava addirittura la difesa ferma ad attendere la segnatura. Sul 2-1 certe partite rischiano addirittura di capovolgersi: dimenticato in fretta ciò che era successo nel primo tempo, i laziali si vedevano presentare inaspettamente la possibilità di pareggiare e non badavano alle misure pur di giungere a realizzare questa incredibile impresa. In verità, sarebbe stata una beffa da ricordare per molto tempo, ma il divario di abilità fra le die squadre e l’energia dell’arbitro riportavano, a poco a poco,  le cose nel giusto verso, ed al termine il 4-1 doveva essere considerato più che logico. Dicemmo ieri che in incontri di questo tipo (una delle prime, contro l’ultima) sono gli arbitri di polso che difendono la regolarità di un risultato. Gambarotta è uno di questi. La Lazio, come si sa, dispone di due o tre elementi che picchiano anche quando non dovrebbero e che perdonano Stacchini, ma che non consentono ad un Sivori o ad un Charles molta libertà. Nel primo tempo il duello Carosi-Sivori ha offerto spunti davvero incredibili: il laziale non è mai riuscito a toccare una sola volta la palla. L’argentino, tornato in grande forma, ha compiuto prodezze che meriterebbero di essere filmate e presentate nelle scuole di calcio. Ma tutto ciò ha compiuto a caro prezzo: alla fine si è buscato anche un calcio nello stomaco e da quel momento (mancavano tre o quattro minuti alla fine del tempo) si è visto molto meno. A tratti è anche scomparso. Eufemi ha pensato bene di…urtare Mora prima ancora che la palla giungesse nella sua zona. Franzini e Carradori, in preda ad un nervosismo inconcepibile (perché la superiorità della Juve era netta e misurabilissima), si sono fatti riprendere continuamente. Gambarotta ha scelto la via più difficile per non far degenerare l’incontro: ha evitato cioè di giungere ad espulsioni che avrebbero praticamente messo fine alla partita, ma ha proceduto a continue ammonizioni, decretando una lunga serie di punizioni, sinchè la Lazio ha capito che su quella strada non sarebbe giunta molto lontanao. […] – da La Gazzetta dello Sport del 13.02.1961
CLASSIFICA: Internazionale p. 29; Juventus p. 26; Catania, Milan p. 25; Roma p. 24; Fiorentina p. 22; Sampdoria p. 21; Bologna, L.R. Vicenza p. 19; Napoli p. 18; Atalanta, Padova p. 17; Torino p. 16; Lecco, Spal p. 15; Udinese p. 13; Bari p. 11; Lazio p. 10

 La Vecchia Signora conquistò lo scudetto nel 1960-1961 con il record di Sívori, che segnò ben 6 reti nella storica vittoria per 9-1 contro l'Inter, in cui i nerazzurri schierarono per protesta la formazione Primavera. La partita del 16 aprile 1961 fu sospesa al 31', sul risultato di 0-0, a causa del sovraffollamento sugli spalti, dovuto allo sfondamento dei cancelli da parte di alcuni tifosi interisti senza biglietto, che causò l'invasione della pista d'atletica di alcuni spettatori, che si sedettero sulla stessa per guardare la partita. Nonostante essi non tentassero di entrare nel terreno di gioco, la gara fu fermata, su pressione di alcuni giocatori nerazzurri tra i quali  Mariolino Corso, e la Corte di Giustizia Federale assegnò all'Internazionale la vittoria per 2-0 a tavolino. La Juventus fece successivamente ricorso e la Corte d'Appello Federale decretò la nuova disputa della gara. I bianconeri alla fine vinsero il campionato con 49 punti, quattro sopra il Milan e cinque in più dell'Internazionale, vincendo 22 partite, segnando 80 gol (25 Sívori, 15 Charles, 13 Nicolè, 12 Mora) e ricevendo per la prima volta la Coppa campioni d'Italia

IL PUBBLICO A BORDO CAMPO?  ERA NORMALE
Juve-Milan del '58 si giocò con la gente sulla linea laterale. A Padova e a Bergamo i giocatori chiedevano permesso per battere gli angoli. Non era la prima volta che capitava un fatto del genere. Al Comunale diTorino come in altri stadi italiani, il fatto che il pubblico, quando troppo numeroso, entrasse sulla pista d' atletica o s' assiepasse a bordo campo tra le gradinate e la linea laterale, non rappresentava certo una novita' per il calcio italiano ai massimi livelli. Val la pena ricordare, a tal proposito, che tre anni prima di quell' aprile '61, esattmente il 16 novembre del '58, la Juventus aveva giocato contro il Milan una delle partite piu' incredibili della sua storia davanti a piu' di 80 mila persone. Anche quella volta la pista d' atletica fu invasa da spettatori. E nulla successe ne' tra le opposte tifoserie, di fatto mescolate, ne' sui tavoli dei tribunali del calcio. La Juve incasso' subito 3 gol, poi si porto' sul 2-3, il Milan fece 4 a 2, i bianconeri riuscirono a pareggiare, infine Grillo a tempo scaduto firmo' il gol della vittoria rossonera. Nonostante la clamorosa dinamica delle reti, nessuno si sogno' di entrare in campo interrompendo il regolare svolgimento del match. Erano altri tempi, erano diversi i modi di intendere il calcio, il gioco, il tifo. E nel '58 il Comunale era gia' " abituato " da anni ad ospitare la folla anche a bordo campo, in coincidenza di partite di vertice. Si passava magari dalle 10 mila persone (appena) per una gara di Coppa Campioni (si giocava al pomeriggio di mercoledi' in orario lavorativo e all' epoca le gare internazionali non erano sentite come oggi: contava di piu' una partita di Coppa Italia....) agli 80, 90 mila spettatori di campionato per un Juve-Milan o Juve-Inter. E' illuminante, in tal senso, il ricordo di Stacchini, uno dei campioni bianconeri: " Quando ad esempio andavamo a Padova o a Bergamo, sapevamo che avremmo giocato col pubblico vicino al rettangolo. Quegli stadi erano troppo piccoli e la Juve muoveva le folle in ogni parte d' Italia. Proprio a Padova io dovevo sempre chiedere permesso ai tifosi quando battevo un calcio d' angolo. Loro si spostavano un po' e cosi' potevo prendere un minimo di rincorsa. Ma tutto era naturale. E comunque non solo negli stadi meno capienti la gente scendeva dalle gradinate: anche a Napoli capitava spesso la stessa cosa. Eppure non successe mai niente di strano in campo, e mai la Juve si sognò di fare quello che fece Herrera ".


Giampiero Boniperti
Nasce a Barengo (Novara) il 4 luglio 1928. La Juventus lo preleva dal Momo, squadra dilettantistica del Novarese, nell’immediatosecondo dopoguerra e con i mai traditi colori bianconeri, nell’arco di quindici stagioni, disputa 460 partite (444 di campionato, 13 di Coppa Italia e 3 nell’ambito della Coppa dei Campioni) realizzando 179 goal (178 in campionato e 1 in Coppa Italia). Racconta del suo trasferimento in bianconero: «Le trattative furono brevi; io avevo firmato il cartellino per il Momo ma, sentimentalmente, il mio cuore era per la squadra del mio paese, il Barengo, e desideravo che, nel passaggio alla Juventus, anche quella società avesse qualche guadagno. Andò a finire così: prezzo di acquisto 60.000 lire; 30.000 furono per il Momo e 30.000 per il Barengo, in scarpe, maglie e reti, di cui avevano bisogno. Io, mi accontentai dell’onore. Furono gli amici a leggermi la Juve del Quinquennio come se fosse un romanzo d’avventure. Il fenomeno di casa, però, era Gino, mio fratello. Solo che fumava come un turco. Sarebbe diventato un fuoriclasse. Ha fatto il radiologo. Me l’ha portato via un tumore. Feci il provino in Piazza d’Armi, dove si allenavano i ragazzi. Borel venne a vedermi. Poi, entrò in campo. Mi lanciava la palla. Di destro: pim, di sinistro: pim. Chiamò il dottor Egidio Perone, medico di Barengo e tifosissimo della Juventus, e gli disse: “Portamelo ancora domenica, così lo faccio giocare nelle riserve prima della partita con il Livorno”. La domenica, era il 22 maggio 1946, tornammo a Torino. Sulla Topolino del dottor Perrone. L’appuntamento era allo Sporting, il tennis club dove i giocatori mangiavano, prima di andare, a piedi, al Comunale. Vidi per la prima volta Sentimenti IV e Rava, Parola e Piola, Varglien II e Locatelli, Coscia e Depetrini, insomma conobbi la mia Juve. Poi andammo al campo: l’avversario era il Fossano e mi marcava un giocatore vero, anche se un po’ in là con gli anni. Era stato lo stopper del Torino. Vincemmo 7-0 ed io segnai sette goal. Carlin, storico giornalista di “Tuttosport”, scrisse: “È nato un settimino”. La Juve, con Volpato che era il responsabile del settore giovanile, mi fece firmare il cartellino nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi». Soprannominato dai suoi avversari Marisa, a causa dei suoi boccoli biondi, Boniperti è un centravanti mobilissimo, astuto, dalla tecnica sopraffina e dall’innato senso del goal, Boniperti (che nella seconda parte della carriera, ridimensionato il raggio d’azione, fornirà sempre maggior apporto al centrocampo), nel 1947/48, a meno di vent’anni, con 27 reti, si aggiudica la classifica dei marcatori con 2 goal di vantaggio su Valentino Mazzola capitano del mitico “Grande Torino”.
Da calciatore lega il suo nome agli scudetti 1950 (non nascondendo mai la preferenza per questa squadra, da lui ritenuta la più bella) 1952, 1958, 1960 e 1961 ed alla Coppa Italia nel 1959 e nel 1960: «Ho avuto tante offerte. Inter, Milan, Roma, il “Grande Torino”. Era stato Valentino Mazzola a fare il mio nome a Ferruccio Novo. Il presidente mi ricevette nel suo ufficio: “Commendatore”, gli dissi, “sono della Juve, non posso”».
È diventata leggenda la storia dei premi che Gianni Agnelli gli dava per ogni rete segnata; gli veniva regalata una mucca, che lui andava a prendere direttamente nei poderi della famiglia Agnelli. Il fattore, ad un certo punto, si lamentò, dicendo che Giampiero gli portava via le mucche più belle e, per giunta, gravide.
Al termine del campionato 1960/61, disputa la sua ultima partita: è il 10 giugno 1961, ed è un’occasione piuttosto triste per la storia del calcio; gli avversarisono, infatti, i ragazzini dell’Inter, fra i quali Sandro Mazzola, figlio dello scomparso rivale granata Valentino, polemicamente mandati in campo dalla società nerazzurra ed è forse proprio questo il motivo che induce Boniperti a chiudere con il calcio: «Sono per i tagli netti. Mi tolsi le scarpe e le diedi al magazziniere. Mai più messe. Odio le pantomime fra vecchie glorie».
Charles disse: «La perdita di Boniperti, dal punto di vista tecnico, aveva nuociuto in modo basilare alla squadra, essendo venuto a mancare il cervello, il pilastro del centrocampo, l’uomo che dirige e coordina il lavoro dei compagni, l’uomo indispensabile per una squadra che voglia giocare un calcio moderno a livello nazionale ed internazionale». Boniperti, con la maglia azzurra, partecipa alle spedizioni mondiali del 1950 in Brasile e del 1954 in Svizzera, colleziona 38 presenze e 8 goal. Un gettone e 2 reti con la rappresentativa B. Il 21 ottobre 1953, l’olandese Lotsy lo seleziona per la gara in programma a Wembley fra l’Inghilterra ed il Resto d’Europa, organizzata per festeggiare il novantesimo anniversario della Football Association. Boniperti, l’unico italiano in campo, al fianco dei vari Nordahl, Vukas, Kubala e Zebec, è autore di una prestazione da favola che corona con due splendidi goals: finisce 4-4, ma il venticinquenne biondo di Barengo è unanimemente riconosciuto come il migliore in campo. Uno dei tanti aneddoti: «Ludovico Tubaro. Veniva dal Toro, giocava nel Legnano. Un tronco di stopper. Una domenica, mi entra a catapulta sulla caviglia e rischia di spezzarmela. Esco, mi medicano, rientro. Lo aspetto. Palla sopra la testa e gran botta, gran goal. Lo cerco e gli faccio il gesto dell’ombrello: “Tubaro, tiè”. Mi ha inseguito fin sotto la doccia. Un giorno, che ero ancora europarlamentare, squilla il telefonino. Era lui. Quasi mezzo secolo dopo. Quel pomeriggio, l’avrei ammazzato. Quel giorno, l’avrei abbracciato». Dopo un decennio trascorso nei quadri dirigenziali, Boniperti il 13 luglio 1971, assume la presidenza della Juventus e la squadra, dopo anni non troppo brillanti torna a volare. Sotto la sua regia, infatti, la squadra bianconera tiranneggia l’Italia, l’Europa ed il Mondo: arrivano scudetti e soprattutto quelle Coppe Europee che in casa Juventus avevano sempre fatto soffrire: «Certo era meglio giocare. Sul campo mi sentivo me stesso, ero forse più vero. Qui, dietro la scrivania, è anche una schermaglia psicologica. Si può dire e non dire, si vorrebbe dire e non si può dire. Il calcio è una materia sempre più difficile». Quando la Juventus di Parola perse lo scudetto con il Torino, nel campionato 1975/76 Boniperti si presentò a Villar Perosa, per discutere dei contratti con i giocatori. Nella propria borsa, oltre ai contratti, aveva anche un ritaglio di giornale, con la formazione scesa in campo a Perugia giornata di campionato. Sedici maggio 1976, la Juventus perde per 1-0 ed il Torino, pareggiando in casa contro il Cesena, può festeggiare il tricolore. Ai giocatori che, mano a mano, entravano nella sua stanza, Boniperti diceva: «Tu c’eri a Perugia ...» Nessuno ebbe certo il coraggio di rilanciare sul reingaggio. Lui faceva l’interesse della società, ovviamente, ma stimolava i giocatori nell’orgoglio e nel portafoglio.
Rimane in carica fino all’avvento della Triade composta da Moggi, Girando e Bettega; più di trenta anni dietro una scrivania e tante, tantissime vittorie.
DAL SUO LIBRO “UNA VITA A TESTA ALTA”:
Sono arrivati insieme Omar Sivori e John Charles. Anno di grazia 1957: con loro è cambiata la vita, della Juventus e mia. Tre scudetti in quattro anni non hanno bisogno di spiegazioni. Cattivi rapporti con Omar? Bisogna capire una cosa. Sivori era argentino. Non era né brasiliano, né John Charles. Il brasiliano, se può, ti dribbla e passa la palla, in silenzio. L’argentino ti dribbla dandoti un pugno in faccia e poi ti manda a fare in culo con un “hijo de puta”.Charles è un fuori quota. John era un gigante di 1,90, campione dei pesi massimi, che saltava con le braccia lungo i fianchi per non far male. Uno dei più grandi signori del calcio. Gran colpitore di testa, come John Hansen. Ma Hansen, dopo un po’ che era in Italia, aveva capito tutto ed i gomiti li allargava. Charles no. Io mi arrabbiavo. Nell’intervallo delle partite spesso non cambiavo i calzoncini e non bevevo il the per stare a parlare con lui: «John alza ‘sti gomiti. Non vedi che ti picchiano? Se tu allarghi i gomiti noi segniamo sempre». Ma lui non l’aveva nel sangue, faceva dei gran sì con la testa e poi continuava a giocare come al solito.Sivori era tutto il contrario. Strafottente. Ti tirava i capelli, ti metteva le dita negli occhi. Ci ha creato un bel po’ di problemi con gli avversari. Quando siamo andati a Vienna, nel ritorno del primo turno di coppa Campioni, ci hanno ammazzato: sette goal ed un sacco di botte. Ce l’avevano giurata, dopo l’andata a Torino in cui Sivori aveva segnato una tripletta provocandoli in continuazione. Ma che grande giocatore, Omar. Ti divertiva, in campo e fuori, era una fortuna averlo come compagno.
Era stato portato da Levi, un vecchio dirigente della Juventus che viveva in Argentina. Sivori non si teneva dentro niente, non te le mandava a dire. Ed era molto coccolato: dai giornalisti e dalla famiglia Agnelli. Dicevano che non andassimo d’accordo ed è vero solo in parte. Eravamo molto diversi, questo sì, mi disturbavano certi suoi atteggiamenti provocatori e glielo dicevo. Non ci siamo taciuti nulla, ma insulti mai, litigate mai. Anzi, ci siamo divertiti insieme. Ancora oggi quando Omar viene in Italia vederci è di rigore. Sempre. Boniperti, Sivori e Charles: che tempi. John era la nostra guardia del corpo. Ricordo quando Gigi Peronace mi ha portato Charles a casa. Vedo ‘sto uomo per la prima volta, un monumento. L’ho fatto alzare in piedi: «Gigi, con lui vinciamo tutto». Ed è stato così. John era un giocatore straordinario ed andava d’accordo con tutti, era impossibile non volergli bene. Lui ed Omar sono arrivati nel 1957. Con loro due davanti, dopo otto anni da centravanti, io sono arretrato stabilmente e felicemente a mezzala. Mezzala di regia, un ruolo che mi sono inventato. Sivori faceva la mezzala di punta, Charles era un magnifico centravanti ed io le mie battaglie in area di rigore le avevo già fatte. Allora non c’era la TV. Tutti guardavano la palla ed in area, lontano dal pallone, volavano colpi spesso proibiti. Quante botte ho preso là in mezzo.
Soprattutto agli inizi della carriera era molto faticoso giocare l’intera partita. La Juventus di fine anni quaranta era una squadra stagionata: Depetrini, Locatelli, Magni, Sentimenti III, Rava, il più giovane ero io. Loro, i veterani, quando avevano la palla la lanciavano subito dentro a me, io certe volte facevo tre/quattro scatti uno dietro l’altro ed ero perso per il resto della gara; basta, non toccavo più palla, perché se non rompi il fiato sei imballato per tutta la partita. Ma vaglielo a spiegare. Se non correvo mi sgridavano: «Dì cit, scatta»,urlavano e dovevi filare, in bocca a certi difensori che erano più che mastini. Castigliano, Tognon, Rigamonti. Vedersela con quelli della Triestina era come entrare a mani nude nella fossa dei leoni: Striuli, 90 chili di cemento distribuiti su un metro e spiccioli di altezza, Blason, Sessa, gente simpaticissima ed amabile fino all’ingresso in campo, ma superata la linea pur di evitare un goal avrebbero menato anche madri e sorelle. Ti mollavano certe zuccate sulla nuca da stordimento. Sessa aveva un bel testone e tutte le volte che saltava in contrasto con Præst, il povero Karl aveva la peggio. Cadeva come una mela e si lamentava: «Boni, non ce la faccio più». Aveva ragione, contro i difensori della Triestina finivi le partite completamente rintronato. In quello stadio ho segnato un goal senza volerlo e poi le ho quasi prese. È andata così: Muccinelli ha crossato, ho visto arrivare i mastini e, per ripararmi, ho buttato le gambe in avanti tenendo alte le piante dei piedi. Il pallone ci ha picchiato sopra, del tutto casualmente, ed è finito in porta. Me ne hanno dette di tutte i colori; ho dovuto scappare da Parola, il mio angelo custode. A guidare quella formidabile squadra di lottatori era Trevisan, mezzala di grande personalità e burbero abbastanza da mettermi soggezione. Mi prendeva il naso fra le dita e urlava: «Puparìn, (bambino) cosa fai nella nostra area di rigore? Vai nella tua, fila!» Adesso mi scappa da ridere, ma allora non era piacevole. Ero un ragazzino, correvo da Parola e lui mi rispediva in area con un affettuoso: «Va là, falabràc (lazzarone)».
Altra impresa non da poco era affrontare in trasferta il Padova di Rocco. Pin, Scagnellato, Blason, Azzini, Rosa picchiavano come fabbri. Il Paròn li chiamava “i miei manzi”. Una volta, ancora su cross dal fondo, mi sono visto venire incontro, oltre che la palla, anche Scagnellato. Per la paura mi sono bloccato ed Azzini, che non poteva immaginare che io non ci fossi, in rovesciata ha steso il compagno al posto mio. Sono filato via inseguito dai loro “mona”. Quello che mi ha picchiato di più è stato Parola, maestro e capobranco, ma avversario duro quando gli giocavo contro nelle riserve della Juventus. Nella prima foto ufficiale con la maglia bianconera, ho un occhio nero per una gomitata di Nuccio in allenamento: modo sbrigativo per spiegarmi che il tunnel che gli avevo fatto non gli era piaciuto. Parola mi voleva bene ed io lo adoravo. Era grandissimo, non a caso con la sua rovesciata è stato per anni sulla copertina delle figurine Panini. Se penso cosa guadagnano adesso i giocatori col diritto d’immagine e cosa non ha mai preso Parola per tutto il tempo in cui ha pubblicizzato l’album con quel gesto tecnico straordinario, divento matto.
Ma una soddisfazione ed un bel ricordo ce li ho: perché io, quando non ero già più presidente della Juventus, ai dirigenti della Panini tutte queste cose le ho dette. «Quanto vi ha fatto guadagnare Parola senza avere una lira in cambio?» E loro hanno capito. Alla famiglia Parola hanno versato 100 milioni, come segno di riconoscenza. E Nuccio, che è stato malato a lungo, ne aveva bisogno. Nella storia della Juventus, Parola occupa un posto importante: giocatore eccezionale, con Valentino Mazzola è in cima alla mia classifica ogni tempo, ha vinto tre scudetti anche da allenatore. Quando è morto ho preso la cravatta della mia divisa bianconera e gliel’ho annodata al collo. L’ho fatto io, anche se nella Juventus non avevo più un ruolo operativo. Ma il vecchio Parola alla Juventus ha portato eleganza, signorilità e gloria: non poteva andarsene nudo. La cravatta della mia divisa a Parola quando morì: lui era il simbolo dell’eleganza e della gloria Juventus.
Dalla penna di Vladimiro Caminiti :
Era un giorno del 1946. Giampiero non ha ancora diciotto anni. Una gomitata in allenamento di Parola gli fa da viatico. Gli lascia il segno su un sopracciglio. Giampiero non si smonta, ci vuol altro. A Borel, allenatore ad intermittenza della Juventus, il ragazzo piace. È buttato nella mischia in un match del campionato 1946/47, in casa contro il Milan. La Juventus perde 2-1, ed illustri tecnici non apprezzano il biondino di Barengo.
Intanto gli si dà credito, e il ragazzo sparisce per un po’ dalla prima squadra di una formazione abbastanza avventurosa (Sentimenti IV, Foni, Varglien II, Depetrini, Parola, Locatelli, Magni, Piola, Astorri, Candiani, Lipizer) soprattutto in attacco. Viene riproposto quando è già estate, quel campionato a venti non finiva mai, gioca altre cinque volte, l’esperienza gli è servita, si svela il suo stile originale, nasce la sua intesa con Muccinelli a Livorno, il 29 giugno 1947, è un pareggio, 2-2, Muccinelli e Boniperti danno spettacolo.
Presidente della Juventus è Dusio. La famiglia Agnelli è per il momento in disparte. Ma nessun momento dura a lungo. Gianni sta crescendo, è un rampollo pieno di voglie anche calcistiche, è un intenditore finissimo. I fondamentali di Giampiero sono puri. Forse perché fin dagli anni della crescita ha corso e battagliato con la palla anche nei cortili, ad esempio in quello del Collegio De Filippi di Arona dove ha frequentato come allievo interno le medie. Non è che Giampiero Boniperti ami parlare dell’infanzia, o della sua adolescenza, non ama per l’esattezza parlare il nostro laconico biondino, si applica subito nei fatti, si suda in campo ben presto la pagnotta di calciatore vincente, quando la Juventus lo acquista, Boniperti è già adulto come calciatore. Anche questo colpisce del ragazzo diciottenne, la sua serietà sorridente, ma riservata, pudica, nei mesi trascorsi a meditare il futuro, dopo lo sfortunato esordio casalingo col Milan, egli rinforza il carattere allenandosi duro. Gli da una mano, un giovanotto boemo, che una fame impietosa ha trascinato lontano dalla sua bella cupa magica città di Praga, Vycpalek; è un amico vero, per il giovane Giampiero. Sono i giorni tempestosi della gloria del Torino, una squadra che Ferruccio Novo, con furbizia e buon senso, ha formato proprio negli anni durissimi della guerra; e che ora vince tutto, tranne soffrire nel derby, quando la Juventus gli rende la vita difficile. La prima Juventus di Boniperti è una squadra valorosa, ancorché incompleta; ha tempo per completarsi, e parteciperà il destino. Un destino atroce che attende l’aereo del Torino di ritorno da una spedizione di pace. Da quasi due anni rispetto a quell’ingiusta data del 4 maggio 1949, la famiglia Agnelli è rientrata alla base; l’assemblea dei soci ha ratificato il ritorno del figlio di Edoardo Agnelli, Gianni, nella famiglia, per la storia il 22 luglio 1947. E l’occhio di Gianni Agnelli ha subito notato il calciatore nuovo, senza ghiribizzi o stranezze, gli consentirà di arricchirsi da campione costruendogli attorno, anche e specialmente per onorare la città e il ricordo dello squadrone scomparso nel sangue, un capolavoro di squadra. Boniperti se l’è meritato nel più lungo campionato della storia, 1947/48, a ventuno squadre, ogni domenica una riposa, si attacca a settembre e si finisce a luglio, una maratona massacrante, qui si forma un campione, qui mette le ossa, comincia la favola di Boniperti, 40 partite e 27 goal, capocannoniere davanti al suo stesso idolo, l’imperversante formidabile mastino, pure lui biondo, capitan Valentino Mazzola. Un giorno ammetterà di non amare troppo allenarsi, tanto che lui e i compagni si stancheranno presto non dico del bizzoso Chalmers incompetente ma del pur bizzoso ma talentuoso, stratega e stregone, Jesse Carver, che li ha capeggiati a vincere lo scudetto più meraviglioso, nel campionato 1949/50. Molti hanno scritto che è la più bella Juventus mai esistita (Viola, Bertuccelli, Manente, Mari, Parola, Piccinini, Muccinelli, Martino, Boniperti, John Hansen, Præst). Forse è un’esagerazione. Certo, prudenza e audacia, fantasia e concretezza, sono nel suo bagaglio, come in quello di Giampiero, che segna goal divini, col suo piede trentotto, che è flessuoso e acrobatico, che è l’erede in tutto del suo maestro Farfallino Borel. Boniperti detto Boni. Gli avversari, ad esempio quel matto totale di Lorenzi, gli appioppano nomignoli irrispettosi, come Marisa. In realtà, non si era mai visto un calciatore così riservato e così rispettoso fuori campo, quanto in campo è abile opportunista e sagace tattico. I giorni passeranno, in Nazionale proverà ogni emozione, letizia e tristezza, anche forti amarezze. Ne sarà capitano, la Juventus gli verrà cambiata dieci volte attorno, minaccerà di sfaldarsi non appena Gianni Agnelli dovrà lasciarne la presidenza, si vedrà crescere attorno, Giampiero Boniperti, molti satelliti anche insidiosi. Come calciatore, lo distingue la sua preveggenza. C’è la storia vera delle vacche gravide. L’avvocato Gianni, giovane e generoso non si immaginava scommettendo con Boniperti, che il biondino si sarebbe scelte quelle gravide. Boniperti, figlio di un podestà, nasce con l’istinto dell’agricoltura, col senso del risparmio nel sangue.
Nella difficile Juventus di Omar Sivori e John Charles, Boniperti la farà da regista con inimitabile puntiglio nei servizi e nel piazzamento. Scriveranno che in campo dirigeva anche gli arbitri. Aveva un enorme carisma, questo sì, rappresentava in toto la Juventus, come essa era stata negli anni antichi e come continuava a essere anche col suo esempio. Si può affermare che Boniperti capitano suggellasse passato e futuro; è nato con lui il calciatore come professionista, la stessa attività di calciatore assume contorni più precisi, una sua distinzione. Il calciatore forte e malizioso nella lotta, che non tira mai indietro il piede, e disponibile per utili consigli comportamentali, fuori, con i compagni, molti dei quali sperperano i dorati guadagni.
Giampiero Combi si era ritirato dopo aver conquistato il titolo di campione del mondo. Boniperti decide di saltare il fosso l’indomani dello scudetto 1960/61. Lascia campo libero all’idolo nuovo Omar Enrique Sivori. Esce senza dichiarazioni roboanti, com’è nel suo stile di uomo, di fare precedere a poche meditate parole, tanti fatti succosi. Sarebbe sparito dai giornali per un pezzo, prima di ricomparire, convocato dall’Avvocato al capezzale della Juventus. Per farla rinascere, per rinascere insieme, rivivendo anche da presidente la sua favola di invincibile. Del più scudettato presidente d’Italia, il campione redivivo anche dietro una scrivania.
Alberto Refrigeri, “Hurrà Juventus” agosto 2011:
Sono passati più di sessant’anni da quando ebbi la fortuna e l’onore di conoscere Giampiero Boniperti. Proprio in ricordo di questi periodi trascorsi, prima come amico-tifoso, e poi come suo addetto stampa, dal 1971 in poi, voglio raccontare alcuni episodi, poco conosciuti, avvenuti durante la lunga “convivenza” col mio presidente. Lo chiamerò sempre il mio presidente, perché il nostro è stato un rapporto prima di amicizia e stima, e poi di completa fiducia professionale. Ho conosciuto Boniperti nel lontano 1948, sul treno che portava i giocatori e qualche tifoso, che oggi sarebbe definito Vip, a Bergamo per l’incontro con I’Atalanta. Ricordavo che era appena iniziato il campionato, ma per individuare la data esatta ho dovuto fare ricorso all’Almanacco bianconero, che ha così sentenziato: 17 ottobre 1948, Atalanta 2 - Juventus 4, con tre gol di Boniperti ed uno di Muccinelli. Questa era la formazione bianconera: Sentimenti IV, Angeleri, Caprili, Depetrini, Rava, Locatelli, Muccinelli, Cergoli, Boniperti, Sentimenti III, Caprile. Allenatore l’inglese Jesse Carver. In quei primi anni del dopoguerra, la Juventus, per determinate trasferte, si serviva, o dei tradizionali pullman o dell’aereo, ma anche della Littorina, che all’epoca poteva quasi essere definita un charter sui binari. Un vagone riservato alla squadra, ai dirigenti e ad una quarantina di tifosi privilegiati, fra cui il sottoscritto e mio padre, grande tifoso bianconero (che mi sia permesso ricordare nacque il 1° settembre 1897, accadde a due mesi prima della grande Juve). Proprio in quel viaggio scoprii che Boniperti abitava a Torino in via Morghen, a pochi passi dalla mia abitazione: eravamo entrambi giovani e nacque naturalmente un rapporto che dura tutt’ora e che mi ha visto seguirlo prima come tifoso, poi come giornalista di “Tuttosport”; infine come suo collaboratore, in qualità di addetto stampa e direttore di “Hurrà Juventus”. In quei tempi i miei incontri con Giampiero erano praticamente quotidiani: ci trovavamo molto spesso ad acquistare il giornale da Giovanni, il più vecchio edicolante in Torino ancora in attività.
Sin da allora, ho sempre considerato Boniperti un personaggio concreto, duro, vincente. Leale ma spietato con chi non risponde con le stesse armi. Ricordo che ripeteva spesso una frase: «Io perdono, ma non dimentico». Ed i giornalisti lo sapevano bene: una delle caratteristiche di Boniperti, è quella di aver avuto con la stampa rapporti cordiali, ma difficili. Come scrisse un grande giornalista, di fronte alle domande di solito sceglieva di trincerarsi dietro un amabile sorriso ed un cordiale buffetto sulla guancia.
Ma torniamo a parlare della nostra giovinezza, ai beati vent’anni, quando eravamo entrambi iscritti alla Facoltà di Economia e Commercio, in piazza Arbarello a Torino. Lui diede il primo esame in Economia montana e forestale, materia nella quale (provenendo da una famiglia di agrimensori), era particolarmente versato. Rimediò, probabilmente con la complicità di un professore juventino, un accettabile 27. Poi non continuò gli studi, considerato che il tempo per allenamenti, partite, trasferte, non era compatibile con un’accurata preparazione universitaria. Anch’io, pur senza la scusa degli allenamenti, rimediai qualche stiracchiato 18 e poi abbassai la guardia. Ciascuno di noi ha una squadra preferita nel cuore, una squadra che, come si dice, non si cambia per tutta la vita. La moglie si può cambiare, la maglia no. Sarebbe interessante conoscere davvero di quale squadra fossero tifosi i calciatori. Si sa che Baggio era interista e che Del Piero è sempre stato juventino, per esempio. Poco tempo fa, in una conversazione telefonica con una TV locale, il vecchio allenatore Gustavo Giagnoni, che per qualche anno guidò il Toro, fece intendere di aver avuto in gioventù simpatie bianconere. Giampiero Boniperti, invece, non ha mai nascosto la propria fede bianconera. Anzi, proprio per la sua passione ha rinunciato a rilevanti guadagni presso società che da calciatore lo avrebbero pagato a peso d’oro. Un tifo per i colori bianconeri, il suo, sempre discreto e sempre rispettoso verso l’altra squadra cittadina. Rispetto si, ma fino ad un certo punto; come quella volta, si era agli inizi degli anni novanta, quando accompagnai da lui un bravissimo telecronista, oggi a Sky, che voleva conoscere il presidente. Boniperti lo ricevette con la massima cordialità, ma lo inquadrò subito: «Vedo che lei ha il distintivo granata! Grande squadra il suo Torino, dove avevo tanti amici, però si ricordi che io vi ho fatto ben 13 goal in campionato ed uno in Coppa Italia!» Il mio Presidente ha sempre dato grandissima importanza al fatto che i calciatori si sposassero in giovane età. Negli anni della sua presidenza cercava di favorire e, se possibile, accelerare i matrimoni dei suoi giocatori. Mi diceva: «Devo molto a Rosy. Un’unione riuscita come la mia credo sia l’ideale per un giocatore che deve concepire lo sport come regolarità di vita».
A Finale Ligure, dove Boniperti conobbe la ragazza che sarebbe diventata sua moglie, successe un fatto più che curioso, e che pochissimi conoscono. La località savonese era il nostro incontro vacanziero, stessa spiaggia stesso mare. Boniperti andava ai Bagni Lido di proprietà di un ex calciatore degli anni trenta, signor Diena, io ai bagni Elios, confinanti. Erano gli anni del Boniperti nel pieno fulgore, capitano della Juventus e già in Nazionale, idolo delle ragazzine e ricercatissimo per gli autografi da parte di tutti i bagnanti di ogni fede calcistica. Vi lascio quindi immaginare cosa successe in spiaggia verso le 7:00 di sera. Se ne erano andati quasi tutti e si stava svolgendo una partita di calcetto: tutto nella norma, quando un urlo selvaggio spezzò quell’atmosfera godereccia: «Mi son rotto il polso!». Era Boniperti che, tentando un dribbling, aveva appoggiato male la mano sulla sabbia ed urlava dal dolore. Tutti intorno al campione che si lamentava, ed immediatamente scattò la ricerca di un medico, che fortunatamente era presente fra i bagnanti e lo trasportò in ospedale. Appena entrato al Pronto Soccorso, il medico si rivolse all’infermiera di turno affinché gli venisse fatta al più presto una radiografia: «Capisce sorella, si tratta di Boniperti!» E la suora, con due occhi raggelanti replicò: «Boniperti chi?» Era il 3 giugno 1972, il giorno dopo la conquista del suo primo scudetto da presidente. Siamo all’albergo Principi di Piemonte, lo stesso che oggi ospita la squadra prima delle partite interne. Tavolata con 500 invitati per dirigenti, giocatori e tifosi Vip. Al centro Boniperti con a fianco Gianni Agnelli, a destra, ed Umberto Agnelli, a sinistra. Il presidente, ovviamente acclamatissimo, inizia il suo discorso con una battuta che dice molto del suo rapporto con i due fratelli: «Come potevo non vincere questo scudetto con due mezze ali così?» Ovviamente gli applausi furono scroscianti, per lo scudetto e per la battuta. Tante volte, dagli spalti dello stadio, osservo gli spettatori che seguono la partita. Molti tranquillamente seduti, alcuni invece con occhi sbarrati, altri super concentrati con una forza interiore che cercano di trasferire ai giocatori in campo, che in quel momento sono i loro idoli. A tal proposito mi raccontava Boniperti che una volta si trovava a Roma per una riunione del Coni e alloggiava in un grande albergo del centro. Una mattina il direttore gli si avvicinò: «Presidente, posso chiederle una cortesia? Abbiamo nostro ospite un importantissimo industriale, tifoso della Juve e di lei in particolare, che vorrebbe conoscerla personalmente». La risposta fu positiva e Boniperti mi confessò che vedere quel signore di età avanzata e molto potente («per essere ricevuto da lui bisognava passare almeno da dieci segretarie», mi disse) quasi con le lacrime agli occhi per il solo fatto di averlo incontrato lo aveva fatto sentire in imbarazzo: «Dentro di me (mi disse) ho pensato che avrebbe chiamato l’autista, mi avrebbe fatto caricare in macchina e mi avrebbe messo in mostra nel suo giardino».  Per terminare questo viaggio attraverso la mia vita con Boniperti, voglio ricordare un momento difficile per tutti noi tifosi. Per un certo periodo (tra la seconda metà degli anni ottanta ed i primi anni novanta) la Juve restò per troppo tempo senza vittorie e Boniperti, giocando d’anticipo, diede le dimissioni. Era il 5 febbraio 1990. Poi, circa un anno e mezzo dopo (siamo nel giugno del 1991) successe un fatto strano, di cui poi avrei capito meglio il significato. Non sentivo il presidente da tempo (era quasi sempre a Roma, al Coni) quando una sera, verso le 22.:30 suonò il telefono di casa: «Ciao, sono Boniperti, arrivo adesso con il volo da Ciampino, sono in macchina e sto andando a casa. Tu come vai?» Abbastanza bene, dico io: «La signora?» Anche lei benino, rispondo: «Cosa stai facendo?» Guardo un film in TV: «Ciao, ti saluto e ti bacio in fronte». Conoscevo il presidente da molto tempo ormai e sapevo che era tipo di poche parole, ma che mi telefonasse a casa la sera tardi solo per salutarmi non era mai successo. La cosa non convinceva né me, né mia moglie. Comunque entrambi gradimmo il saluto. E tutto finì lì. Un paio di giorni dopo aprii i giornali: titoli a nove colonne: «L’Avvocato Agnelli richiama Boniperti alla guida della Juventus come amministratore delegato, con mandato triennale».
A quel punto mi fu spontaneo pensare che quella telefonata fosse un modo, indiretto, se non subliminale, per anticiparmi quella notizia che non poteva ancora rendere nota. In realtà non gli ho mai chiesto se fosse davvero così, perché voglio illudermi che il sottoscritto fosse fra i pochi degni di ricevere, anche se in codice, un importante segreto.

Angelo 33 ha scritto :
Non l'ho mai visto giocare di persona perchè all'epoca non ero ancora nato. Ma mio padre me ne parlava in modo entusiastico e mi riferiva che fosse non solo un grande talento, un punto di riferimento per la squadra, ma anche un professionista esemplare, che si ritirò improvvisamente ed inaspettatamente quando ancora avrebbe potuto essere per anni un protagonista. Quando ero bambino mi colpì Sandro Mazzola, che solitamente non dava quasi mai soddisfazione quando si trattava di parlare di componenti di squadre diverse dall'Inter, il quale in un intervista fatta all'inizio degli settanta (doveva essere il 1971) ne parlò con un ammirazione e stima profonde. Che sembravano andare oltre un semplice rapporto professionale. Mio padre mi diceva che Boniperti era sempre composto, corretto ed elegante come un inglese seppure, nel contempo, fosse grintoso, agile, molto veloce e dotato di un tiro fulminante.
Certo è stato il miglior presidente della Juventus e, a mio modesto avviso, di tutta la storia del calcio italiano. 
Molto più lucido e competente di Moratti o Berlusconi (quest'ultimo, in verità, di calcio ne dovrebbe masticare poco se è vero che, p.es. preferiva ingaggiare l'argentino Borghi invece di Van Basten come invece voleva Sacchi). I quali certo non conoscevano nè potevano conoscere il calcio ed i calciatori come lui. Sempre mite e educato quanto lucidissimo, fermo ,autorevole e deciso nell'orientare la squadra. Dotato di evidente carisma è sempre stato un punto di riferimento. La famiglia Agnelli gli deve più di ogni altro juventino (giocatore o allenatore che esso sia). Se avesse potuto disporre dei mezzi enormi di Berlusconi e se, negli anni settanta, non vi fossero stati limiti agli stranieri da far giocare in Italia, avrebbe probabilmente, con il fiuto che aveva, creato una  Juventus stellare.  La grande Juventus degli anni settanta, tutta solo italiana, è stata prevalentemente opera sua.  Mi ha sempre colpito come sapesse contenere la sua evidente passione per la squadra e per il suo lavoro, la sua evidente emotività (usciva sempre dal campo dopo la fine del primo tempo) con un ammirevole compostezza e saldezza di nervi.  Tanto più nel periodo in cui lui e la squadra che dirigeva furono investiti per anni da critiche ed insulti durissimi, pesantissimi di tifosi e dirigenti della Fiorentina.  Insulti portati con così grande veemenza ed insistenza che avrebbero fatto salire il sangue agli occhi a chiunque. Con queste capacità avrebbe potuto avere molto successo anche in politica. Chi sia capace di guidare per molto tempo in modo così saggio , lucido e determinato una grande squadra con grandi tradizioni e sempre sotto lo sguardo severo di tutti i tifosi taliani, ha le capacità di guidare anche una collettività. Ma oggi più che mai, in un Italia mai così corrotta, degradata ed imbarbarita nella sua storia, la politica non è certo fatta per i galantuomini.
Angelo Balzano.
08 agosto 2009 23:02

JOHN WILLIAM CHARLES
Alla fine di un derby, il “Gigante buono” John Charles mostrò, nello spogliatoio, la spalla nuda, sulla quale erano rimasti in modo molto chiaro dei segni di denti, perché lo stopper avversario lo aveva morsicato, per fermarlo in qualche modo. A chi gli chiedeva come mai rideva della cosa, John fece rispondere da Sivori, il quale precisò che se mai il gallese si fosse arrabbiato, avesse messo in atto qualsiasi reazione, il dentuto sarebbe morto. Una volta finì contro un palo e rimbalzò inanimato, mentre il palo vibrava. Molti spettatori pensarono all’infortunio del calciatore, ma fu, invece, la tragedia del palo che prese a muoversi ad ogni sollecitazione perché l’urto gli aveva tolto la guaina stretta del terreno. Charles si rialzò quasi subito, scrollando la testa come a rimproverarsi. Per averlo dal Leeds, la Juventus diede al club inglese, i soldi per ampliare la tribuna del proprio stadio: Prima di fare una stagione breve ed infelice alla Roma, Charles riuscì a sistemarsi nella galleria dei grandissimi della Juventus, con un gioco fisico e potente, in contrasto con quello sfavillante ed ubriacante di Sivori, con il quale si integrava alla perfezione. Parlò sempre poco l’italiano, ed i colleghi garantivano che parlava poco anche l’inglese. Arrivò a Torino nel 1957 con già 3 figli (Sivori, tre anche lui, ne ebbe due quando già stava a Torino) e trovò sempre riparo in essa. In campo era un grande, riusciva a conciliare la mole con l’estetica, la potenza con la precisione, la gagliardia con la realtà. I compagni lo ammiravano devotamente, gli avversari lo temevano rispettosamente. Chi era costretto a piantargli i denti nella spalla, in realtà doveva imporsi la cattiveria, perché John era uno di quelli che attiravano strette di mano. Una volta raccontò di quando, nel Galles, fece il suo primo viaggio con la squadra. Era in treno, passò quello con i panini offerti dalla società, lui aveva fame, allungò una mano, un anziano della squadra gliela trapassò con un coltello e gli spiegò che aveva mancato sul piano dell’educazione e lo ammonì a dare sempre la precedenza a quelli più vecchi. John aveva avuto anche esperienza in miniera: lo obbligarono ad incidere un disco, raccontando questa storia; lui sosteneva che non era giusto, lui era fortunato e basta, la miniera gli era servita per fargli vedere come era bello il mondo al di sopra. Aveva una velocità progressiva notevole e quando capitava che travolgesse un avversario, John subito lo aiutava ad alzarsi e gli chiedeva scusa. Una volta venne a giocare a Torino l’Arsenal ed il centromediano era suo fratello, Mel: si diedero sanissime botte per 90 minuti, un bel western di famiglia: mai una cattiveria, sempre una onesta gagliardia. Fu uno spettacolo. Disse di lui “Farfallino” Borel: «Sono oltre trent’anni che seguo il gioco del calcio e posso dire che mai nessun atleta mi ha impressionato nel gioco di testa, come Charles. È senz’altro favorito dalla statura, ma sa contemporaneamente saltare e colpire, con una precisione mai vista fino a quel momento. Nel gioco di testa è completo, sa effettuare il tiro diretto in porta con precisione e potenza e, nel medesimo tempo, sa effettuare il passaggio breve e preciso, per mettere il compagno nelle condizioni migliori per giocare la palla». John Charles era molto timido. Mai visto uno così rapido nell’arrossire, anche per cose di poco conto. Un cromatismo alla Mammolo di Biancaneve, dolce ed assurdo in un uomo così grosso, così forte. John ebbe fama anche per come, unico forse al mondo, seppe reprimere, sino allo schiaffo, l’allegria/isteria di Sivori in un match milanese di Coppa Italia. Omar aveva per John un rispetto terribile, nel senso che lo notificava sempre a John, per farlo arrossire, ma intanto lo coltivava pure, lo ammetteva, ne riconosceva la profonda giustizia. Il compagno Garzena, racconta: «Prima delle partite, avrebbe potuto mangiarsi una “bistecca alla valdostana”, con il formaggio e tutto il resto. E non aveva mai una lira in tasca; John non aveva mai capito troppo bene il cambio tra Lire e Sterline, era poco attento ai soldi ed all’amministrazione del denaro. Capitava spesso che gli dovessi pagare persino il cinema. Che  giocatore, però! Quello che fece nel primo anno alla Juventus, tra goal fatti, goal salvati ed assist, non ho mai più visto farlo a nessuno». Ancora John: «Boniperti impostava dalla metà campo le nostre azioni. Omar, in fase avanzata, deliziava noi ed il pubblico con impareggiabili serie di tocchi, di passaggi e di tiri diabolici. Quando la difesa marcava lui, doveva necessariamente concedermi una libertà, che mi consentiva di piazzare tiri in rete e colpi di testa. Quando i difensori, invece, si gettavano in massa su di me, la stessa libertà di azione, veniva concessa a Sivori e dare respiro ad Omar significava incassare delle reti ed essere beffati». Ed ancora, quando decise di lasciare la Juventus: «Rimpiango di non essere arrivato prima in Italia, in questo paese magnifico, fatto per gente eccezionalmente simpatica. Se così fosse stato, anche la mia famiglia avrebbe assimilato, come ho fatto io, il vostro modo di vivere. Ma adesso avverto il bisogno di tornare a casa; i miei figli cominciano ad essere grandi e mia moglie Peggy sostiene che non possiamo più perdere del tempo. Dovranno vivere in Inghilterra, è necessario che, nel minor tempo possibile, diventino inglesi. Per questo John Charles, vi lascia e vi saluta; io, lo giuro, sarei rimasto tra di voi per sempre. Ma non posso! Non posso proprio!» John Charles ci ha lasciato il 21 febbraio 2004. Lo chiamavano ogni tanto a Torino per qualche partita di vecchie glorie, il fisico era sempre buono, il suo colpo di testa sempre letale. John trovava sempre gente che gli ricorda un suo goal, e le emozioni e commozioni ad esso legate, e lui, gentilissimo, faceva finta di ricordare perfettamente ogni particolare. D’altronde i suoi goal, di testa o di piede, furono sempre molto simili, perentori e sonanti, largamente annunciati da un volo, da una avanzata, senza troppa invenzione e fantasia. I suoi goal non facevano arrabbiare i portieri, erano goal buoni, chiari, semplici.
Di Alberto Fasano, da “Hurrà Juventus” del Dicembre 1981:
Dico subito che Charles è stato e resta un grande amico della Juventus e dell’Italia. Nella sua autobiografia dal titolo “Good bye Juventus”, il formidabile giocatore gallese ha scritto infatti che se “Gigi” Peronace, il talent scout che organizzò il suo trasferimento alla Juve, lo avesse scoperto a diciotto anni, quando ancora aveva sulle mani i calli del lavoro ed in corpo tanta forza da spendere, molto probabilmente John sarebbe sceso tra noi senza il biglietto di ritorno per il suo verde paese. Quando arrivò in Italia per giocare centrattacco della Juventus, Charles aveva già alle spalle dieci anni di attività svolta nelle file del Leeds. Le caratteristiche fisiche e tecniche erano identiche: stessa potenza, stessa vitalità, stesso agonismo. Già allora il suo pezzo forte era il colpo di testa. Lo stesso John raccontava perché era diventato così bravo: solo di rado il giovanissimo stopper poteva allenarsi sul campo della prima squadra ed allora si divertiva a ribattere la palla di testa contro il muro degli spogliatoi: ore ed ore di esercizi; ed alla fine non trovò più giocatore che arrivasse sui palloni alti con prontezza e potenza pari alla sua. Nel 1949, John indossò per la prima volta la maglia della Nazionale del Galles nel match con l’Irlanda. Aveva solo diciotto anni. Non era stato un esordio esaltante, ma il buon Charles non ebbe nemmeno il tempo per riflettere sui molti errori commessi che si ritrovò sotto le armi per il servizio di leva. Lo mandarono a Darlinton, una cittadina distante cento chilometri da Leeds. Dopo aver fatto il ragazzo di fatica negli stadi il giocatore diventò di colpo carrista, costretto tutte le mattine ad alzarsi alle cinque, vestire la tuta mimetizzata e lustrare quei maledettissimi carri armati sui quali un tenente pignolo trovava sempre qualcosa di sporco. La sua piccola fama di calciatore servì tuttavia a salvarlo in tempo. Venne aggregato alla compagnia sportiva ed ogni settimana poté fruire di tre giorni di licenza per giocare le partite di campionato con il Leeds. Pareva aprirsi un periodo felice! Un giorno il capitano Smith si accorse che il soldato semplice John Charles era alto 187 centimetri e pesava 75 chilogrammi: «Tu diventerai un grande pugile», gli disse, «al reggimento manca un peso medio per i campionati militari!» Lo mandarono in palestra, gli insegnarono che cos’era il gancio e l’uppercut. John è sempre stato essenzialmente un buono: saliva perciò sul quadrato con una paura matta di far male all’avversario (ed anche di farsi male). Alla fine del primo ed unico anno di attività pugilistica, il suo ruolino parlava di 10 vittorie su 10 incontri, 5 ai punti e 5 per ko. Ma a John Charles, chiaramente, il pugilato non interessava affatto. E venne in suo soccorso il maggiore Gordon, appassionato di calcio e più alto in grado del capitano Smith. Alla nazionale militare occorreva un centromediano: e Charles tornò ai verdi rettangoli del calcio. Nel 1951, tra incontri giocati per la Nazionale Militare e quelli disputati per il Leeds, toccò il limite record di 100 partite in nove mesi. Due anni dopo portò la sua Peggy all’altare, quella Peggy che poi gli regalò tre stupendi ragazzi, forti come il padre: Terry, Melvin e Peter. All’inizio del 1957 “Gigi” Peronace, incaricato da Umberto Agnelli di portare alla Juventus un forte centrattacco, fece senza riserve il nome di John Charles. In Italia la cosa non era sfuggita ad altre società. La Juve aveva offerto 55.000 Sterline; offerte maggiori vennero fatte dalla Lazio (attraverso l’allenatore inglese Mister Carver) e dall’Inter (per interessamento del General Manager signor Valentini). Il Real Madrid arrivò addirittura ad offrire 70.000 Sterline. Ma la Juventus era arrivata prima ed Umberto Agnelli, dopo aver visto personalmente all’opera il giocatore gallese nel confronto internazionale tra Galles e Irlanda, firmò il contratto con mister Sam, presidente del Leeds. La firma avvenne in una sala del “Queen Hotel”. John Charles arrivò in Italia il 3 aprile 1957. In serata, con un volo da Roma, il gigante gallese era a Caselle. Il giorno dopo era già in campo per un provino/allenamento. Giampiero Boniperti fu il primo a stringergli la mano ed a consegnargli la maglia bianconera con il numero 9 sulla schiena. Poi John tornò per breve tempo in patria e diventò italiano l’11 giugno di quello stesso 1957. Nella Juventus, oltre a Boniperti, trovò quell’altro fuoriclasse che era Ornar Sivori. I tre campioni si integravano a meraviglia: Boniperti e Sivori mettevano a disposizione di Charles i tesori della loro classe, della visione di gioco, del palleggio, del mestiere; ed il grande “King John” sfornava reti su reti: ne segnò 28 in 34 partite nella sua prima stagione in bianconero, stagione che, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, si concluse con la vittoria dello scudetto. John non ha mai dimenticato l’esplosione di gioia con la quale venne festeggiato quel grande successo. I tifosi, che già avevano da dividere le loro simpatie tra Boniperti e Sivori, avevano trovato un nuovo idolo. È chiaro che le difese di tutto il campionato si coalizzarono, invano, per frenare l’impeto irresistibile di quel gigante che partiva da lontano con velocità sempre crescente e che non si arrestava se non quando aveva visto la palla in fondo la rete. Charles di botte ne prese moltissime, ma non ricordo un suo gesto di reazione, un suo fallo cattivo. Durante una partita nella quale aveva preso calci e gomitate un po’ da tutti, si rivolse a Boniperti dicendogli con aria supplichevole: «“Boni”, fai tu qualcosa, difendimi: io non ne sono capace!» Era di una bontà incredibile. Nel corso di una gara molto equilibrata con l’Inter, mentre il risultato era fermo sullo 0-0, Charles correva verso la porta avversaria, affiancato da un avversario; nel tentativo di svincolarsi, senza intenzionalità, John diede una gomitata in un occhio al nerazzurro; l’arbitro non fischiò ed il centrattacco juventino ebbe via libera. Ma John, il “Gigante buono”, si arrestò e soccorse l’avversario caduto a terra. Tra i tanti goal epici realizzati da Charles, vorrei ricordarne uno messo a segno al Comunale contro il Bologna. Un’azione di contrattacco, con John che partì dalla propria area di rigore, puntando diritto verso la porta rossoblu. Se non ci fosse stato l’urlo della folla, si sarebbe potuto sentire lo scalpitare dei suoi zoccoli di bufalo lungo tutto il campo. In quegli ottanta metri gli si pararono contro almeno in sei avversari, spingendolo, urtando, cercando con ogni mezzo di fermarlo. John non si fermò: sbuffando come un treno, abbassando la testa come un rinoceronte, scardinò ogni ostacolo, riuscì a trovare la coordinazione per un breve scambio con un compagno ed entrò in rete con la palla al piede. Guardarlo da vicino quando entrava in campo, metteva paura, incuteva rispetto. Era un gigante tirato su a bistecche, spalle fortissime, lombi muscolosi, cosce corte e dure, resistente alla fatica, atleticamente irresistibile. Nelle mischie il suo balzo veniva fuori rapido, come quei barattoli cinesi dai quali, svitato il coperchio, scatta su la testa di un drago. Quella di Charles era una testaccia da catapulta, che sparava più forte e più fulminea delle sue scarpe. La sua potenza era contrappesata da un incredibile equilibrio morale, dalla lealtà, dalla coscienza che egli non stava guerreggiando, ma giocando a football per divertire il pubblico e far punti per la sua Juventus. Il suo corpo era irregolare, disarmonico: gambe corte, come ho già detto, fianchi bassi, piedi piccoli. Una macchina, però, che risultava perfetta quando si metteva in movimento per catapultare il pallone nella rete avversaria. Il suo modo di correre era addirittura buffo, con quelle lunghe braccia ciondoloni lungo i fianchi, più avanti del corpo, lasciando i polsi disarticolati. Aveva un gioco semplice, ma estremamente redditizio, i suoi passaggi perfetti, specie se effettuati di testa: in area di rigore terrorizzava le difese. Quando era lanciato pareva un carro armato, munito di un solo cannone, la testa, che demoliva i più solidi muri umani. Malgrado fosse e si sentisse un autentico cannoniere, John non fu mai un egoista nel gioco: per lui era importante soprattutto che la sua squadra facesse i goal, non che li segnasse lui personalmente. Ha lasciato in tutti i bianconeri e negli sportivi italiani un ricordo affettuoso, carico di simpatia ed amicizia. Restò alla Juve sino al 15 aprile 1962, per cinque stagioni; poi passò alla Roma. Ed infine fece ritorno al verde Galles. Ricordo quanto scrisse un pittoresco cronista inglese sul “New Chronicle” quando il mondo calcistico d’oltre Manica venne informato che Charles sarebbe passato dal Leeds alla Juventus: «Se ne va John Charles, il calciatore che ha le fattezze di Marlon Brando, la struttura di un peso massimo, le gambe di un velocista in bicicletta, il fiato di una tigre ed il mortale morso di un cobra». Una serie di frasi che strapparono a John un largo e divertito sorriso. Ogni tanto John torna ancora da noi, magari per divertirsi insieme ai vecchi amici in una partita di vecchie glorie. Lo accogliamo sempre con immenso affetto.
Di Angelo Caroli, da “Hurrà Juventus” dell’aprile 2004:
In questa circo stanza dolente vorrei essere un semplice amico di John, un ex compagno di squadra e non un giornalista. Non sarei costretto a scrivere sulla scomparsa di un giocatore immenso e di un grande uomo mite, con l’animo fanciullo. La professione mi obbliga a scrivere molto di lui quando invece vorrei tenermi ogni ricordo dentro, dosare i pensieri, rievocarli con delicatezza, metterli in fila. Una fila gioiosa e intanto malinconica. Ma tenuta per me, custodita fra le cose belle, bellissime e irripetibili, di un passato oramai remoto. Ora che John ha lasciato un vuoto e un buio enormi dentro tutti noi, sento che devo raccontare il primo giorno che lo vidi spuntare dal cancello del Combi. Era in divisa e sembrava un gigante. Tanta folla si era radunata attorno all’ultimo fenomeno del pallone che il dottor Umberto Agnelli aveva acquistato dal Leeds. Alla competenza del Dottore era stato suggerito da “Gigi” Peronace. Era il maggio del 1957. Qualche mese dopo sarei andato in prestito al Catania. Sono transitati davanti ai nostri occhi stanchi quarantasette lunghi anni. L’arrivo di John fu accolto da molti tifosi e da una giornata scintillante. Indossava una giacca blu con tre file di leoni ricamati in oro sul petto. Il viso sembrava radunare tutte le scaglie di un sole tiepido. Ai tifosi deve essere apparso come un semi Dio. Si esibì. Calzava un paio di scarpe con bulloni di metallo, non se n’erano viste prima in Italia. Impressionarono la corsa in accelerazione, il colpo di testa straordinario, la forza d’urto. Un cemento armato che toccava la palla in modo scarno, essenziale e molto efficace.
Strinse mani entusiaste, ricevette auguri e complimenti, salutò e ripartì per Swansea, in Galles, dove era nato. Quando tornò a Torino, un paio di mesi dopo, si inserì in un organico rivitalizzato dall’arrivo di un altro asso del pallone, Omar Sivori, e di un giovane promettente, Nicolé. Boniperti pilotava una truppa di uomini esperti miscelata con elementi maturati in un paio di stagioni congiunturali. A Ljubiša Broćić, allenatore jugoslavo, bastò poco per capire come la Juve dovesse attaccare gli avversari: un passaggio largo di Boniperti, un cross di Stivanello, un colpo di testa di Charles ed i giochi erano fatti. Il pallone finiva in rete o sul mancino perverso di Omar che completava l’opera. Stupendo! Quei fenomeni stavano aprendo un ciclo. Io ero in mezzo a loro, a novembre sarei partito per la Sicilia, ma intanto mi lasciavo suggestionare dai talenti che mi correvano vicino. Sivori, Emoli e Stivanello divennero gli amici più stretti di Long John. Ma chi era veramente Charles? Lo chiamano “Gigante Buono”. Riduttivo. John era un immenso professionista. Un atleta dalla continuità e dal rendimento impressionanti. Uno sportivo incapace di sotterfugi, di ipocrisie e doppiezza, rasentava il paradosso con quella concezione leale dell’agonismo. Si ispirava ad un rigore comportamentale che un giorno lo spinse a schiaffeggiare Sivori attanagliato da una sorta di trance isterica. Il campione deve essere un esempio, sembrava minacciare John con occhi che restavano buoni. Devo ricordare i 3 scudetti vinti da lui, la capacità di riconvertirsi come centromediano o libero (lo ricordo in un match di Coppa dei Campioni nel 1962 ad Atene, contro il Panathinaikos, ero tornato alla Juve, giocavo al suo fianco e mi sentivo protetto come se viaggiassi su una corazzata). Ed ecco altre immagini vincenti, la corsa che travolgeva, una corsa a passi rapidi visto che era di bacino basso. Un caterpillar che temeva di fare male, di nuocere. Ed intanto gli avversari lo riempivano di botte come fosse un pung-ball. Lui taceva ed andava avanti. Boniperti e Colombo lo invitavano a farsi furbo, almeno a difendersi. Lui rispondeva con un sorriso ed una signorilità da cui era lecito trarre utili insegnamenti. Come dimenticare i colpi di testa che ricordavano arieti e catapulte! Ed il tiro simile a una frustata. Sento nostalgia e tristezza mentre mi aggrappo a tali memorie tecniche. Però a me preme raccontare, soprattutto ai giovani che non lo hanno conosciuto ed ammirato, altre immagini della sua storia favolosa. Un giorno, non ricordo mese ed anno, si scontra a metà campo (siamo al Comunale) con l’avversario, un tipo forte come una quercia di fusto corto: Bernasconi della Sampdoria. L’impatto è tremendo, ha la peggio il doriano che rotola a terra fra gemiti. Disco verde per John. Davanti ha solo il portiere, però si accorge dell’avversario che geme. Si blocca e scaraventa la palla in zona laterale. Dopodiché soccorre Bernasconi. Tanti applausi per il suo cuore immenso. Fra gli aneddoti tramandati di generazione in generazione c’è anche un impatto rovinoso contro un palo, durante un match con la Fiorentina. I pali, all’epoca, sono spigolosi. Nel catapultarsi sul pallone finisce contro un legno e poi rovina a terra. Lo stadio resta muto, come avvolto da una grande farfalla silenziosa. Il gigante è a terra. Il gigante quasi non respira. Il gigante ha gli occhi chiusi. Si riavrà poco dopo, stordito ma pronto a offrire altri show. Il “Comunale” è di nuovo in festa. Indimenticabili anche i fotogrammi che lascia in Versilia, quando in vacanza si esibisce in un night. La sua voce sembra arrivare dalle vie di New Orleans ed offre al pubblico le note malinconiche di “Sixteen tons” e “The end”.  John nasce a Swansea il 24 dicembre del 1931, suo padre è stato calciatore nello Swansea Town. Nelle file dei ragazzi della squadra cittadina John milita dal 1938 al 1945. In prima squadra debutta a diciotto anni. Il ruolo? Centromediano. In Nazionale esordisce l’8 marzo del 1950, contro l’Irlanda, e disputerà i Mondiali del 1958. Passa al Leeds e sfonda, in ogni senso, come centravanti. La stampa locale non si da pace per il trasferimento, come i supporter. È intanto finito il tempo della spola da un ruolo all’altro, stopper, terzino, mediano. I tecnici fanno luce sulle sue capacità. La stazza (1,87 per 84 kg.) secondo taluni dovrebbe essere un limite per un centravanti. Profezia errata e smentita dai fatti. Solo il servizio militare gli toglie spazio. Mentre serve la patria fa persino il pugile. Vince parecchi incontri, alcuni per ko. Sono gli unici scampoli violenti di un’esistenza pacifica. La firma con la Juve risale al 18 aprile del 1957. Costo 110 milioni di Lire, a lui ne vanno 18. In Inghilterra diventa un caso. «Dopo Firmani, trasferito alla Sampdoria, se ne va anche Charles. Il nostro calcio dovrebbe riflettere», scrive il “Times”. Con la maglia bianconera si aggiudica 3 scudetti e 2 Coppe Italia. Nel primo anno conquista il titolo di capocannoniere con 28 reti. Mostruoso! A Torino lascia un’eredità esemplare oltre alle 150 partite in campionato e 93 reti. Resta fedele alla Juve fino alla primavera del 1962, quando il colore della maglia diventa giallorosso. Si separa da Torino poiché Peggy vuole tornare in Inghilterra. John cede, ma una volta a Leeds e dopo un’offerta della Roma e l’ennesimo litigio con la moglie accetta un ingaggio per un anno. Gioca 10 partite e segna 4 goal. Quando torna in Galles milita prima nel Cardiff e poi nello Hilford United. Si stabilisce a Leeds e non si stacca più dall’ambiente del club che lo aveva lanciato. E dai pub dove beve birra ed intanto rievoca storie fantastiche con amici ed ex compagni di squadra. Poi divorzia dalla moglie Peggy e conosce Glenda, una donna amorevole e presente. Vivrà sempre con lei. John ha quattro figli, Terry, Melwyn che ha giocato a rugby di buon livello, Peter e David. Lo rivedo qualche anno dopo grazie alla passione di Bruno Garzena e di Benito Boldi, amici ed ex colleghi. John crea puntuali sensazioni inebrianti. Ci si diverte fra vecchie glorie e lui è sempre un monumento. La vita, ad un certo punto, sembra voltargli la faccia. Gli sta sempre vicino Glenda, con disperata devozione. Finché irrompe il destino malevolo. E maligno. Glenda lo fissa negli occhi sempre più spenti e gli da tanto amore. John è malato, John ha avuto un ictus. John è sempre più lontano dalla vita, dagli amici, dai tifosi, dall’Italia e dal suo Galles. È oramai lontano da tutto. A Milano tentano di riaccendere speranze. L’organismo è logoro, si avventano su di lui complicazioni fatali. A disarmonizzare il battito cardiaco e ad appannare la lucidità s’insinua un morbo implacabile. Subisce perfino una mutilazione al piede destro. Tante persone gli sono accanto: Umberto Agnelli («È stato uno dei grandi nella storia della Juve, uno che si faceva amare in campo e fuori»), Boniperti, Leoncini, Castano, Benito Sarti, Emoli, Garzena, Bettega e, soprattutto, Boldi. Ed ovviamente la dirigenza bianconera. Perché torni a Leeds la Juve gli mette a disposizione un aereo ambulanza. Ed a Leeds viene a mancare all’affetto di Glenda e dei figli. È il 21 febbraio. Sono le cinque del mattino. Ora che attorno alla sua immagine solare si sono spenti i riflettori non mi resta che dire addio, con pianto silenzioso, al professionista impeccabile, all’omone mite dall’animo fanciullo adorato dai tifosi, stimato e rispettato dagli avversari.

Rino Ferrario
La storia calcistica di Rino Ferrario comincia a sedici anni, quando, dopo il Collegio arcivescovile di Desio, viene mandato al Collegio di Saronno dove Rino figurava all’ala sinistra e faceva progressi ogni giorno. Un dirigente lo invitò a giocare nella Pro Lissone, squadra che  a quei tempi militava addirittura in serie C. Rino accettò: mancavano dodici giornate alla fine del campionato e il giovane Ferrario le disputò tutte, sempre come ala sinistra. Ogni partita un goal, anche se sotto il profilo tecnico non era propriamente un mostro.
Rino per qualche tempo si dimenticò del football: divenne geometra ed, in possesso della maturità scientifica, pensò di dedicarsi all’architettura. Dopo due anni, interruppe bruscamente gli studi a causa di gravissimi lutti, la morte del fratello e della mamma. Furono giorni difficili, tanto più che il servizio militareparve bruciare tutte le sue aspirazioni. Ad Arezzo, dove fece la naja, la sua carriera di calciatore iniziò veramente. In occasione di un torneo calcistico delle Forze armate, il poderoso Rinone venne seguito con interesse dall’ungherese Hajos, allenatore dell’Arezzo. Alla fine dell’incontro Hajos prese da parte Ferrario e gli disse: «Giocheresti volentieri nell’Arezzo?» Rinone accettò; grazie anche ad un opportuno infortunio del terzino titolare, disputò 12 partite con la grande soddisfazione della vittoria finale a premiare l’Arezzo.
Nel campionato successivo (1948/49) la società assunse un nuovo allenatore, Piero Andreoli, il quale si interessò molto alla giovane recluta, nella quale vedeva qualcosa di più di una promessa e lo provò al centro della mediana. Fu un grande invenzione: tempismo, potenza, lancio teso e preciso; imbattibilità assoluta sui palloni alti, doti agonistiche ineguagliabili. Forse Rino era un po’ grezzo sotto il profilo tecnico, ma Andreoli ne modellò la personalità tecnico/stilistica. Al termine di quel campionato molte società fecero la corte all’Arezzo. A Rinone si interessò Erbstein, tecnico del Torino campione d’Italia; bussarono anche Sampdoria e Genoa, poi la Fiorentina, che pure aveva Rosetta come centromediano. La spuntò la Lucchese, società maestra nel portare a termine con colpi a sorpresa la campagna acquisti. Nelle file della squadra toscana giocava tale Avanzolini, esperto e tecnicamente dotato. Nelle prime giornate di campionato Ferrario venne relegato tra le riserve; ma dopo le sconfitte di Novara (5-0) e di Torino (3-1), la posizione di Avanzolini non risultò troppo solida. Provarono Ferrario contro il Palermo: ed il pericoloso Di Maso non toccò palla; sembrava la promozione definitiva, ma per qualche partita tornò in auge Avanzolini. La consacrazione avvenne con la stupenda prestazione sul terreno dell’Atalanta, dove la Lucchese impose il pareggio per 1-1. Ferrario giocò forse la sua migliore partita a Lucca contro il Milan: la squadra rossonera vinse per 2-0, ma il grande Nordhal non riuscì a tirare neppure una volta. Proprio in quella occasione Toni Busini, generai manager milanista, fece le prime avances per l’acquisto di Ferrario: la cifra (25 milioni) sembrò esagerata; allora si fece sotto Gianni Agnelli e Ferrario diventò bianconero (1950). Era un simpaticone, sapeva prendere tutto con filosofia, anche dover rimanere all’ombra di Carletto Parola, da tutti definito il più forte centromediano del mondo. Ferrario seppe aspettare con diplomazia e pazienza il suo momento: nel frattempo, giocando in allenamento con il grande Carletto, riuscì ad apprendere dal grande maestro l’arte dei football. Parola si infortunò con il Bologna, e nell’incontro successivo, proprio a Milano contro il Milan del Gre-No-Li, toccò a Rinone misurarsi nuovamente contro il Pompiere rossonero e, come la prima volta, fu una prestazione sensazionale di Ferrario, ormai noto ai fan bianconeri con l’appellativo di Mobilia; il centromediano strabiliò il pubblico con una partita definita dalle cronache uno spettacolo nello spettacolo. Rino anticipò Gunnar sullo scatto, lo annullò nel gioco di testa, effettuò interventi perfetti e salvataggi stupendi. Nella partita con l’Inter, gli riuscì di mettere la museruola a Benito Lorenzi e fece la parte del leone anche contro con la Spal, impegnata nella lotta per la retrocessione. La Juventus segnò dopo un minuto e mezzo, poi fu costretta a sostenere l’urto della scatenata squadra ferrarese. Quel giorno tutta la difesa dovette lottare con le unghie e con i denti per tenere a freno l’irriducibile Fontanesi.
Carlo Parola ebbe modo di guarire con tutta calma: Rinone stava dimostrando qualità eccezionali. Tredici gare di seguito (24 in totale in quella stagione) e poi la soddisfazione di concludere con una vittoria a Padova nell’ultima di campionato, con lo scudetto come premio straordinario. Rinone ha disputato 153 partite nella Juventus, e 10 in Nazionale. La sua giornata di epopea azzurra va considerata quella di Belfast, l’incontro Irlanda del Nord - Italia, gara eliminatoria per la qualificazione ai Campionati del Mondo del 4 dicembre 1957: «Eravamo volati a Belfast per disputare un incontro ufficiale, ma l’arbitro designato non arrivò in tempo, per problemi di nebbia; i rappresentanti della nostra Federazione, dal momento che l’unico arbitro disponibile era irlandese, imposero che la partita diventasse amichevole. Il match, sostanzialmente corretto, terminò in pareggio, per 2-2 ma, al fischio finale del direttore di gara, migliaia di spettatori invasero minacciosamente il campo e cominciarono ad aggredirci; io, che mi trovavo lontano dall’ingresso degli spogliatoi, fui colto dal panico e persi l’orientamento. Fui, così, riempito di pugni e calci e, soltanto a stento, riuscii faticosamente a liberarmi da quella morsa infernale». Partecipò anche allo scudetto della stella, con qualche anno (e qualche chilo) in più: all’allenatore Brocic, che predicava più partecipazione al gioco urlandogli«Attak! Attak!», Rinone rispose: «Attaccati al tram!» Calcio che non c’è più ...
Maurizio Ternavaso, “Hurrà Juventus” aprile 1988:
Nell’autunno del 1950 ha inizio la fulgida carriera bianconera di un atleta esemplare il cui nome è rimasto legato a splendide stagioni di ripetuti successi della squadra: stiamo parlando del brianzolo Rino Ferrario (detto Mobilia), il cui ricco palmarés comprende ben 12 stagioni in serie A (di cui 7 nella nostra Juventus), 2 titoli di Campione d’Italia è 10 gettoni in Nazionale maggiore. Il luogo del nostro appuntamento è un modernissimo ufficio sito in un prestigioso palazzo a due passi dalla centralissima Piazza Solferino; e dopo i convenevoli abituali, la mia prima domanda non può che essere la seguente: Di che cosa si occupa attualmente, signor Ferrario? «Sono il presidente di una agenzia di Marketing e Pubblicità di un certo rilievo e sono diventato tale dopo una lunga esperienza vissuta sempre in questo settore, settore che continua ad affascinarmi enormemente in guanto creativo, come del resto ritengo creativo anche il gioco del calcio».
Qual è l’esatta origine del soprannome Mobilia che l’ha sempre accompagnata nel corso della sua carriera? «Quell’appellativo ha una duplice chiave di lettura e si presta ad una doppia interpretazione: ero Mobilia sia in quanto figlio di un mobiliere brianzolo; sia in virtù di un fisico decisamente poderoso, un armadio insomma». Se non erro, lei è stato tra i pochi giocatori ad aver indossato sia la casacca bianconera che quella granata; per di più, dopo aver giocato per una decina d’anni da difensore puro, ha concluso la sua carriera proprio nel Torino agendo da centravanti: come può spiegate queste, chiamiamole così, metamorfosi? «Nel 1959, dal momento che; ormai trentatreenne, non rientravo più nei programmi della squadra, decisi, pur di continuare a giocare, di passare la barricata: così mi ritrovai in serie B con il Torino, dove rimasi per tre stagioni (la seconda e la terza in serie A) figurando un anno, con 8 goal, capocannoniere della squadra: infatti, dal momento che mi era da sempre piaciuto spingermi in avanti, si era studiato un mio impiego nel ruolo di centravanti, ed i risultati furono discreti». E quali erano le caratteristiche del Rino Ferrario giocatore ante 1958/59? «Ero un terzino - centromediano mancino dal grande temperamento, dotato di un buon fisico e di un ottimo colpo di testa; io credo che, salvo casi sporadici, si nasca calciatori in virtù di una intensa carica agonistica e temperamentale: così imparai poco alla volta la tecnica dal grande Sivori, e la affinai con il passare degli anni. Mi sono sempre divertito come un pazzo a giocare a calcio, e di certo da piccolo non avrei mai immaginato che sarei riuscito a guadagnare dei soldi facendo ciò che più mi piaceva».
Avendo smesso di giocare da oltre venticinque anni, l’amore per il calcio in genere le è venuto meno, od invece continua ad essere un assiduo dello stadio? «Devo confessare che adoro tuttora enormemente il calcio; pur, essendo di fede bianconera, assisto domenicalmente ad ogni incontro che si svolge al Comunale, e per di più vado sempre alla ricerca dello spettacolo: per questo sono stato in Messico ad assistere agli ultimi campionati mondiali». Vede attualmente in circolazione, in campo nazionale, un giocatore dalle caratteristiche simili a quel Nordahl che ha dovuto marcare tante volte? «Al giorno d’oggi vi è abbondanza di centravanti di manovra, ma non di sfondamento, sicché i giocatori di tal ruolo sono più portati a costruire piuttosto che a realizzare personalmente: ne deriva che il ruolo che fu dei Nordhal, Jeppson e Lorenzi viene a mio parere ora ricoperto esclusivamente da un paio di giocatori stranieri: Casagrande e Careca». Un’ultima domanda, signor Ferrario: ritiene che l’essere stato a suo tempo calciatore, e per di più in una squadra dalla grande tradizione umana e storica quale la Juventus, l’abbia agevolata in seguito, nel corso della vita di tutti i giorni? «In proposito non posso aver dubbi: l’ambiente della Juventus da all’uomo una preparazione particolare, inculca ai giocatori una educazione ed una mentalità, un modo di ragionare e di vivere che soccorrono poi quotidianamente; inoltre si è sempre a contatto con personaggi dall’enorme spessore sociale e culturale, ed anche ciò contribuisce a rendere estremamente appetibile una pur breve esperienza calcistica bianconera. Personalmente devo dire che gli anni trascorsi con la casacca a strisce hanno nel complesso forgiato più che positivamente il mio carattere e la mia personalità, e se ho raggiunto un certo successo nel mondo del lavoro ciò lo devo in parte anche a quel fondamentale periodo di vita».

Flavio Emoli
Nato a Torino il 23 agosto 1934. Cresciuto nella società. Un campionato in prestito al Genoa e rientra alla Juventus per la stagione 1954/55 dove è subito titolare. Laterale di carattere indomabile e di ottima tecnica è il comprimario ideale dell’argentino Sivori per il quale si sacrifica in rincorse asfissianti. Compie un lavoro ordinato e preciso, fatto in funzione delle esigenze della squadra. Emoli sa conquistare il pallone con forza ed ha l’intelligenza si batterla in avanti, con immediatezza, al compagno meglio smarcato. Raramente i suoi disimpegni hanno messo in difficoltà la squadra, perché le sue avanzate venivano fatte a ragion veduta, senza eccessivi sbilanciamenti in avanti, senza rompere l’equilibrio tra attacco e difesa. «Il ruolo assegnatomi prevedeva che giostrassi da mediano difensivo, mentre Colombo si muoveva un po’ più avanti. Ma il buffo era che, mentre Boniperti mi spronava sempre ad avanzare, Ferrario cercava in tutti i modi di frenarmi; insomma, ero il classico uomo di spinta, il maratoneta di centrocampo in genere ben preparato fisicamente, tanto che alla fine degli allenamenti rimanevo regolarmente in campo per effettuare allunghi e cross continui a favore di Charles, che voleva perfezionare ilcolpo di testa. Passavo, poi, per un duro e cattivo, mentre non sono mai stato squalificato per gioco scorretto; se ero aggressivo lo ero all’inglese ed entravo sull’uomo solo quando c’era il pallone di mezzo». Era soprannominato “Cuore matto”, come il ciclista Bitossi ed il povero Renato Curi. «Avevo un’anomalia congenita al cuore che venne fuori, per la prima volta, quando avevo ventitre anni, a seguito di un elettrocardiogramma. Il responso di quell’esame lasciava poche speranze, tant’è che, tre giorni dopo, il dottor Umberto venne al campo e mi disse che, forse, avrei dovuto smettere di giocare. Fu un colpo tremendo. I medici, che all’inizio avevano erroneamente individuato gli esiti di un infarto, in seguito si resero conto che, quell’anomalia, spariva quando il cuore era sotto sforzo, ma la nomea mi è rimasta per tutta la carriera». Scolpito nella roccia, caparbio e generosissimo, Emoli, elargisce tesori di energie su ogni campo d’Italia. Esuberante, propenso a buttarsi nella mischia, là dove il giocoassurge a toni agonistici elevati, dote prima di un combattente di razza, Emoli riesce, col tempo, a plasmare la sua condotta di gara, a comprimere quell’azione talvolta convulsa, seppur redditizia, che lo ha sempre inchiodato su un livello tecnico troppo limitato per le sue effettive possibilità. Diventa un giocatore molto importante per la compagine juventina, tanto da diventarne il capitano. «Scendevamo sempre in campo convinti dei nostri mezzi, anche nelle giornate storte; in fondo, l’accoppiata Charles-Sivori garantiva almeno 50 reti a stagione, quindi potevamo dormire ovunque sonni tranquilli. Certo, non ci fossero stati i famosi dissapori di spogliatoio tra Boniperti e Sivori avremmo, forse, potuto vincere ancora di più, visto che eravamo i più forti in assoluto. Era davvero un altro calcio; pensavamo soltanto a segnare tante reti, quasi un centinaio a stagione e non ci preoccupavamo se, magari, ne subivamo due o tre per partita. Questa mentalità ci rendeva più simili a giocatori della domenica che a fior di professionisti. Eppure, quando scendevamo in campo noi, lo spettacolo era sempre assicurato». Nei quadri bianconeri si ferma per otto stagioni: mette insieme 240 partite (217 in campionato, 18 in Coppa Italia e 5 nelle Coppe europee) e 9 goal (8 in campionato e 1 in Coppa Italia) e lega il suo nome a tre scudetti (1958, 1960 e 1961) e a due Coppa Italia (1959 e 1960). Lascia la Juventus e si accasa al Napoli nell’estate del 1963, ottenendo la promozione in serie A della squadra partenopea, per poi terminare la propria carriera al Genoa, nel campionato 1967/68.

«Giocare nella Juventus è stata un’esperienza che ha indelebilmente marchiato la mia vita. Forse sbaglierò, ma il fatto di essere stato uno della grande Juventus mi fa sentire, ancora adesso, importante, quasi di un livello superiore. Anche se so che i meriti di tutto ciò sono in minima parte miei».

Nessun commento:

Posta un commento